Archivio mensile:marzo 2024
L’orto autoirrigante: soluzione adatta ovunque, dal terrazzo al campo
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30 anni fa lo scoop fatale di Ilaria Alpi
Il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, Somalia, è un giorno di ordinaria follia.
Le truppe italiane, integrate nell’operazione a guida delle Nazioni Unite Restore Hope, stanno infatti smobilitando, così come anche quelle americane, belghe, francesi e svedesi, lasciando il terreno libero a bande armate e criminali fino a quel momento rimaste a margine dopo l’intervento a gamba tesa dell’occidente volto a stroncare la guerra civile scoppiata dopo la caduta del dittatore Siad Barre.
L’agguato dalle dinamiche mai chiarite
In questo contesto di fuggi fuggi generale, una jeep sfreccia diretta a Mogadiscio, di ritorno dal porto di Bosaso, città costiera in quel momento controllata dal “sultano” Abdullahi Moussa Bogor.
Su quella Jeep, oltre all’autista e a un uomo armato di scorta, ci sono la giornalista Rai Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin.
A Bosaso hanno fatto un’intervista proprio a lui, il sultano, capo dei ribelli migiurtini.
Due ore di registrazione, stando alla testimonianza resa anni dopo dallo stesso Bogor.
Ci torneremo.
Ilaria e Miran stanno rientrando in albergo per lavorare il materiale che, come anticipato da Ilaria in una delle sue ultime comunicazioni con la redazione, è esplosivo.
Purtroppo non arriveranno mai a destinazione.
Quanto accaduto nei pressi dell’ambasciata italiana di Mogadiscio, a pochi metri dall’hotel Hamana, è da trent’anni un mistero che né i processi, né una commissione parlamentare d’inchiesta sono riusciti a dipanare.
Un mistero alimentato da false testimonianze, depistaggi, menzogne alimentate da personaggi che di volta in volta si sono presi la scena per recitare la loro commedia, insensibili verso la tragedia di una madre e un padre che fino alla fine dei loro giorni si sono battuti invano per la verità.
Un agguato.
Di certo si sa solo questo.
I colpi di arma da fuoco sparati non si capisce da dove, se da lontano, come stabilito in una prima fase di indagini, o se a distanza ravvicinata, tipo un’esecuzione, come stabilito da un’autopsia sul corpo di Ilaria disposta solo dopo due anni dall’omicidio.
L’altra cosa certa di questa storia è che alla redazione di Rai Tre giunsero solamente circa 13 minuti di girato.
Il mistero delle registrazioni manipolate
Le cassette con il girato ripreso a Bosaso giunsero a Roma insieme ai corpi di Ilaria e Miran, chiuse in un borsone sigillato che, però, fu ritrovato aperto.
A togliere i sigilli, un giornalista della Rai che spiegò di aver ricevuto preciso incarico dal direttore generale, anche se poi, in sede di Commissione, il suo racconto mutò sensibilmente e si riempì di “non ricordo”.
Del contenuto esplosivo annunciato da Ilaria qualche giorno prima della morte, restano appena 13 minuti.
Possibile fosse tutto qui?
Difficile da credere, soprattutto perché di questi 13 minuti, quelli davvero interessanti non sono più di cinque.
Ad aggiungere mistero sull’integrità di questi filmati anche la testimonianza – per quanto controversa – di Abdullahi Moussa Bogor, che, sentito in Commissione Alpi nel 2006, affermò che l’intervista rilasciata alla giornalista uccisa superava abbondantemente le due ore.
Il porto dei misteri
Nonostante una certezza su come siano davvero andate le cose quel giorno di trent’anni fa non c’è, è molto probabile che la causa dell’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vada ricercata in quell’ultima intervista raccolta a Bosaso, cittadina nel nord della Somalia, piuttosto defilata rispetto alla ben più centrale e caotica Mogadiscio.
Un luogo di mare dove Ilaria non è capitata per caso.
Bosaso era probabilmente uno dei centri nevralgici dei traffici di armi e rifiuti su cui da tempo la giornalista stava indagando, supportata da un fiuto investigativo invidiabile e avvalendosi di fonti di primissima mano.
Ormai è accertato un collegamento tra Ilaria e l’agente segreto Vincenzo Li Causi, ucciso proprio in Somalia pochi mesi prima, anche lui in circostanze mai del tutto chiarite.
Sono in tanti a ritenere che Li Causi avesse indirizzato Ilaria sulla pista giusta da seguire.
Una pista che potrebbe averla portata fino al “sultano” Bogor.
Le navi Shifco
Il video dell’intervista, o meglio, del frammento superstite, è reperibile facilmente in rete.
Ilaria è di spalle, l’obiettivo di Miran riprende in primo piano Abdullahi Moussa Bogor, che sembra a suo agio nel rispondere in un italiano pressoché perfetto a domande di carattere generale sulle condizioni di vita in quella regione della Somalia.
I due sono in sintonia, scherzano, il clima è disteso.
Poi Ilaria trova il varco in cui infilarsi:
“Senta, cambio completamente argomento, parlano di questo scandalo di questo proprietario somalo con passaporto italiano, si chiama Mugne, che avrebbe preso queste navi che erano proprietà dello Stato e le avrebbe usate per uso privato”.
Ilaria si sta riferendo a Omar Said Mugne, un nome che torna spesso in molte vicende torbide.
Su di lui, per esempio, stava indagando anche Mario Ferraro, altro 007 del Sismi morto in circostanze a dir poco dubbie nel 1995.
Lo scandalo di cui parla – uno scandalo a dire il vero non così noto in Italia, almeno in quel momento – riguarda la flotta di pescherecci riconducibili alla società Shifco, di cui Mugne era amministratore, ma il cui socio di maggioranza era italiano: Paolo Malavasi.
L’uso privato cui allude Ilaria, vedeva questi pescherecci, donati dal governo italiano a quello somalo negli anni Ottanta, trasportare non pesce, ma armi e rifiuti.
Nel sentire questa domanda, Bogor sembra colto di sorpresa.
Guarda velocemente in camera e poi, riferendosi a Mugne, risponde con una domanda: “Lui? Lui solo?”
La società italiana
Ilaria ride e specifica “Beh, lui con altre persone, le chiedo di spiegarmi cosa è successo”.
Il sultano comincia il suo racconto.
Dice che Omar Said Mugne era a capo della flotta Shifco già prima di quello che chiama il “collasso”, ovvero la caduta di Siad Barre e l’inizio della guerra civile: “Quando è venuto il collasso, si è preso le navi, ha fatto scendere gli equipaggi somali in Tanzania e se l’è squagliata con le navi in Italia”.
Poi aggiunge un dettaglio: “Parte di questa proprietà apparteneva ad una società italiana […] Mugne non era niente e non è niente tutt’ora.. è la società che manovra”.
Ilaria chiede il nome della società, che evidentemente è qualcosa di diverso rispetto alla Shifco, di cui è a conoscenza.
Il somalo ride “tu lo sai il nome”, le dice.
Ilaria insiste, ma il sultano la prende in giro, le dice che allora lo deve scoprire da sola, che deve guadagnarsi il pane.
Anche sullo sfondo si sentono delle persone ridere divertite dal siparietto che si è venuto a creare. Tuttavia, all’improvviso, Bogor si fa serio: “Non posso, sai, queste società hanno..” fa un gesto con le mani, quasi a voler indicare i tentacoli di una piovra, poi termina la frase: “Hanno dovunque dei lacché”.