Archivio mensile:marzo 2024

L’orto autoirrigante: soluzione adatta ovunque, dal terrazzo al campo

Dal Web

La soluzione low-tech, semplice e realizzabile in autocostruzione, dell’orto autoirrigante sta prendendo sempre più piede.

È versatile, adattabile praticamente ovunque e permette di usare poca acqua e poco lavoro.

Quello dell’orto autoirrigante è un sistema valido per coltivare senza fatica e in luoghi dove c’è poco o nulla di suolo fertile e poca disponibilità idrica.
Lo spiegano molto bene Alessandro Ronca e Paolo Ermani nel loro libro “L’orto autoirrigante. Coltivare con poco lavoro e poca acqua in campagna e in città”.
 
Uso su balcone o piccoli spazi
Questa tecnica si presta perfettamente a essere utilizzata anche in città sul balcone.
Basta poter realizzare delle cassette, di misura inferiore rispetto al bancale 120 x 80 cm, che possano stare comodamente, e senza gravare troppo nel peso, in un balcone largo anche solo un metro.
Nel libro vengono illustrati alcuni esempi e progetti su come realizzare con un minimo di manualità il vostro sistema agricolo da balcone.
Per verificare la fattibilità di questa applicazione tecnica, Alessandro Ronca aveva cominciato a coltivare sul lastricato antistante la sua abitazione.
Aveva iniziato con una cassetta di 60 x 40 cm ed era arrivato ad averne ben dodici, tutte coltivate con diverse essenze.
Poi successivamente le aveva collegate tra loro in modo da poter condividere la riserva idrica che ciascuna poteva offrire.
 
Uso ornamentale e trasformazione di vasi o recipienti in autoirriganti
Lo scopo è quello alimentare, ma è possibile utilizzare gli orti autoirriganti anche come sistema per far crescere piante ornamentali; si possono anche modificare anfore esistenti trasformandole in anfore autoirriganti e coltivarvi fiori all’interno.
Nel libro ci sono le indicazioni su come è possibile trasformare qualsiasi recipiente in un vaso autoirrigante.
L’autonomia sarà limitata ma pur sempre ottimizzata, offrendo alla specie vegetale il perfetto quantitativo equilibrato di acqua che farà esprimere il massimo dello splendore e rigogliosità alla pianta. Oltretutto si potrà ottenere un vaso autoirrigante esattamente nello stile e materiale che più aggrada.
 
Tetto o contesti più ampi con materiali riciclati
Sempre nel contesto urbano, ci sono spesso dei terrazzi o lastrici solari in cima a palazzi che possono essere trasformati in un orto urbano utilizzando in questo caso i bancali con misura standard, 120 x 80 cm, e i paretali per chiuderli.
Accertandosi che il solaio possa sostenere il peso che andremo a posizionare, nel manuale di Ronca ed Ermani ci sono dettagliate informazione su come trasformare un pallet in un bancale autoirrigante e su come utilizzare questa tecnica in qualsiasi contesto urbano o anche rurale, utilizzando principalmente materiali di recupero.
 
Ambiente rurale con e senza suolo e poca acqua a disposizione
Paolo Ermani ha affiancato Ronca nella sperimentazione degli orti autoirriganti in contesti rurali.
Hanno costruito veri e propri bancali utilizzando mattoni avanzati dalla ristrutturazione dell’abitazione;
i bancali erano simili a quelli che si usano nella tecnica dell’orto sinergico (circa 8 metri di lunghezza per 1 di larghezza).
Nel loro libro sono disponibili tutta la documentazione, gli schemi e i materiali per poter realizzare cassoni produttivi.

30 anni fa lo scoop fatale di Ilaria Alpi

Dal Web

di Gianluca Zanella

Il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, Somalia, è un giorno di ordinaria follia.

Le truppe italiane, integrate nell’operazione a guida delle Nazioni Unite Restore Hope, stanno infatti smobilitando, così come anche quelle americane, belghe, francesi e svedesi, lasciando il terreno libero a bande armate e criminali fino a quel momento rimaste a margine dopo l’intervento a gamba tesa dell’occidente volto a stroncare la guerra civile scoppiata dopo la caduta del dittatore Siad Barre.

Ilaria Alpi, inviata del Tg3, muore il 20 marzo 1994, a Mogadiscio, assieme all’operatore Miran Hrovatin. Aveva 33 anni e stava indagando su traffici d’armi legati alla guerra civile in Somalia. ARCHIVIO – ANSA – KRZ

L’agguato dalle dinamiche mai chiarite

In questo contesto di fuggi fuggi generale, una jeep sfreccia diretta a Mogadiscio, di ritorno dal porto di Bosaso, città costiera in quel momento controllata dal “sultano” Abdullahi Moussa Bogor.

Su quella Jeep, oltre all’autista e a un uomo armato di scorta, ci sono la giornalista Rai Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin.

A Bosaso hanno fatto un’intervista proprio a lui, il sultano, capo dei ribelli migiurtini.

Due ore di registrazione, stando alla testimonianza resa anni dopo dallo stesso Bogor.

Ci torneremo.

Ilaria e Miran stanno rientrando in albergo per lavorare il materiale che, come anticipato da Ilaria in una delle sue ultime comunicazioni con la redazione, è esplosivo.

Purtroppo non arriveranno mai a destinazione.

Quanto accaduto nei pressi dell’ambasciata italiana di Mogadiscio, a pochi metri dall’hotel Hamana, è da trent’anni un mistero che né i processi, né una commissione parlamentare d’inchiesta sono riusciti a dipanare. 

Un mistero alimentato da false testimonianze, depistaggi, menzogne alimentate da personaggi che di volta in volta si sono presi la scena per recitare la loro commedia, insensibili verso la tragedia di una madre e un padre che fino alla fine dei loro giorni si sono battuti invano per la verità.

Un agguato.

Di certo si sa solo questo.

I colpi di arma da fuoco sparati non si capisce da dove, se da lontano, come stabilito in una prima fase di indagini, o se a distanza ravvicinata, tipo un’esecuzione, come stabilito da un’autopsia sul corpo di Ilaria disposta solo dopo due anni dall’omicidio.

L’altra cosa certa di questa storia è che alla redazione di Rai Tre giunsero solamente circa 13 minuti di girato.

Il mistero delle registrazioni manipolate

Le cassette con il girato ripreso a Bosaso giunsero a Roma insieme ai corpi di Ilaria e Miran, chiuse in un borsone sigillato che, però, fu ritrovato aperto.

A togliere i sigilli, un giornalista della Rai che spiegò di aver ricevuto preciso incarico dal direttore generale, anche se poi, in sede di Commissione, il suo racconto mutò sensibilmente e si riempì di “non ricordo”.

Del contenuto esplosivo annunciato da Ilaria qualche giorno prima della morte, restano appena 13 minuti.

Possibile fosse tutto qui?

Difficile da credere, soprattutto perché di questi 13 minuti, quelli davvero interessanti non sono più di cinque.

Ad aggiungere mistero sull’integrità di questi filmati anche la testimonianza – per quanto controversa – di Abdullahi Moussa Bogor, che, sentito in Commissione Alpi nel 2006, affermò che l’intervista rilasciata alla giornalista uccisa superava abbondantemente le due ore.

Il porto dei misteri

Nonostante una certezza su come siano davvero andate le cose quel giorno di trent’anni fa non c’è, è molto probabile che la causa dell’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vada ricercata in quell’ultima intervista raccolta a Bosaso, cittadina nel nord della Somalia, piuttosto defilata rispetto alla ben più centrale e caotica Mogadiscio.

Un luogo di mare dove Ilaria non è capitata per caso.

Bosaso era probabilmente uno dei centri nevralgici dei traffici di armi e rifiuti su cui da tempo la giornalista stava indagando, supportata da un fiuto investigativo invidiabile e avvalendosi di fonti di primissima mano.

Ormai è accertato un collegamento tra Ilaria e l’agente segreto Vincenzo Li Causi, ucciso proprio in Somalia pochi mesi prima, anche lui in circostanze mai del tutto chiarite.

Sono in tanti a ritenere che Li Causi avesse indirizzato Ilaria sulla pista giusta da seguire.

Una pista che potrebbe averla portata fino al “sultano” Bogor.

Le navi Shifco

Il video dell’intervista, o meglio, del frammento superstite, è reperibile facilmente in rete.

Ilaria è di spalle, l’obiettivo di Miran riprende in primo piano Abdullahi Moussa Bogor, che sembra a suo agio nel rispondere in un italiano pressoché perfetto a domande di carattere generale sulle condizioni di vita in quella regione della Somalia.

I due sono in sintonia, scherzano, il clima è disteso.

Poi Ilaria trova il varco in cui infilarsi:

“Senta, cambio completamente argomento, parlano di questo scandalo di questo proprietario somalo con passaporto italiano, si chiama Mugne, che avrebbe preso queste navi che erano proprietà dello Stato e le avrebbe usate per uso privato”.

Ilaria si sta riferendo a Omar Said Mugne, un nome che torna spesso in molte vicende torbide.

Su di lui, per esempio, stava indagando anche Mario Ferraro, altro 007 del Sismi morto in circostanze a dir poco dubbie nel 1995.

Lo scandalo di cui parla – uno scandalo a dire il vero non così noto in Italia, almeno in quel momento – riguarda la flotta di pescherecci riconducibili alla società Shifco, di cui Mugne era amministratore, ma il cui socio di maggioranza era italiano: Paolo Malavasi.

L’uso privato cui allude Ilaria, vedeva questi pescherecci, donati dal governo italiano a quello somalo negli anni Ottanta, trasportare non pesce, ma armi e rifiuti.

Nel sentire questa domanda, Bogor sembra colto di sorpresa.

Guarda velocemente in camera e poi, riferendosi a Mugne, risponde con una domanda: “Lui? Lui solo?”

La società italiana

Ilaria ride e specifica “Beh, lui con altre persone, le chiedo di spiegarmi cosa è successo”.

Il sultano comincia il suo racconto.

Dice che Omar Said Mugne era a capo della flotta Shifco già prima di quello che chiama il “collasso”, ovvero la caduta di Siad Barre e l’inizio della guerra civile: “Quando è venuto il collasso, si è preso le navi, ha fatto scendere gli equipaggi somali in Tanzania e se l’è squagliata con le navi in Italia”.

Poi aggiunge un dettaglio: “Parte di questa proprietà apparteneva ad una società italiana […] Mugne non era niente e non è niente tutt’ora.. è la società che manovra”.

Ilaria chiede il nome della società, che evidentemente è qualcosa di diverso rispetto alla Shifco, di cui è a conoscenza.

Il somalo ride “tu lo sai il nome”, le dice.

Ilaria insiste, ma il sultano la prende in giro, le dice che allora lo deve scoprire da sola, che deve guadagnarsi il pane.

Anche sullo sfondo si sentono delle persone ridere divertite dal siparietto che si è venuto a creare. Tuttavia, all’improvviso, Bogor si fa serio: “Non posso, sai, queste società hanno..” fa un gesto con le mani, quasi a voler indicare i tentacoli di una piovra, poi termina la frase: “Hanno dovunque dei lacché”.