Archivio mensile:aprile 2020

Disarmare

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( Dal Web )

Gli Stati si armano.
Anzi, sviluppano e moltiplicano i loro armamenti da guerra.
La guerra si prepara nella pace.
Le nazioni attualmente sono in stato di pace.
Ma la pace apparente d’oggi è molto più pericolosa e minacciosa della guerra di ieri.
È un periodo di pace in cui non si pensa e non si lavora che per scatenare e potenziare la prossima guerra.
Tutti gli Stati vogliono e preparano la guerra.
Tutti i governanti e tutti i militarismi pensano alla guerra.
A che servirebbero gli eserciti se non si dovessero fare più guerre?
Tutti i popoli lavorano febbrilmente per la guerra.
A chi è utile la guerra?
Alle dinastie, alle caste militari, ai finanzieri, ai capitalisti, ai fornitori.
A chi è dannosa la guerra?
Al proletariato, ai lavoratori tutti.
Ma chi arma la guerra è il proletariato.
È il proletariato che fabbrica i fucili, le mitragliatrici, i carri d’assalto, i cannoni, gli aeroplani, le navi, i sottomarini, i gas, le polveri, gli esplosivi e ogni altro ordigno micidiale.
Ed è il proletariato che marcia a fare la guerra.
I lavoratori sudano per fabbricare le armi che dovranno ucciderli.
Le loro mani, dopo aver fabbricato le armi, le impugnano per uccidersi.
Cosa si direbbe di un individuo il quale, non con la coscienza di suicidarsi, ma per desiderio di vivere, faticasse ostinatamente a fabbricarsi un’arma per poi rivolgerla mortalmente contro se stesso?
Si direbbe che è un idiota o un pazzo.
E non meno idiota o pazzo è il proletariato che fabbrica armi e macchine micidiali per poi adoperarle a maciullarsi.
Dunque gli Stati capitalistici, ad opera e in danno dei rispettivi proletariati preparano la guerra.
Ma non la meschina guerra di ieri l’altro di appena dieci milioni di morti.
Bensì, come ha detto un deputato francese e come dicono tanti scienziati e tecnici al servizio del regno della morte, «la prossima guerra che sarà una guerra di distruzione tremendamente potente».
La scienza guerresca fa dei progressi prodigiosi.
Conta distruggere — con le sue meravigliose invenzioni e scoperte scientifiche — intere città in poche ore.
Mezzo, uno, cinque milioni di persone cadranno esanimi, come cinque milioni di cimici, sotto l’azione di asfissianti o sotto diluvi di fuoco.
La scienza progredisce, gli scienziati imbarbariscono e l’ Umanità istupidisce e perisce. Perciò le Nazioni armano.
Sembrano prese da una collettiva follia degli armamenti.
Armano per ucciderci, decimarci.
E noi non ci accorgiamo nemmeno che lavoriamo per armarle.
Ma se non siamo degli idioti o dei pazzi, dobbiamo riconoscere la delittuosa colpa nostra, massima colpa nostra.
E dobbiamo disarmare.
Rifiutandoci dal fabbricare armi e macchine da guerra;
rifiutandoci dal fare il soldato;
rifiutandoci dal rispondere a qualsiasi chiamata alle armi o ordine di mobilitazione; rivoltandoci distruttivamente contro la guerra e contro ogni opera di guerra.
Disarmiamo il nemico Stato.
[la Rivendicazione, anno II, n. 20, 29 marzo 1924]

Lo Stato con la mascherina

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(Dal Web )

Miguel Amorós
L’attuale crisi ha provocato un notevole inasprimento del controllo sociale statale.
Gli elementi essenziali in questo ambito erano già in atto poiché le condizioni economiche e sociali oggi prevalenti lo esigevano.
La crisi ha solo accelerato il processo.
Veniamo obbligati a partecipare come massa di manovra ad una prova generale di difesa dell’ordine dominante da una minaccia globale.
Il Covid-19 serve da pretesto per riarmare il dominio, ma una catastrofe nucleare, un vicolo cieco climatico, un movimento migratorio inarrestabile, una rivolta persistente o una bolla finanziaria senza controllo sarebbero servite allo stesso modo.
Tuttavia la vera causa più importante è la tendenza mondiale alla concentrazione del capitale, ciò che i dirigenti chiamano indifferentemente globalizzazione o progresso. Questa tendenza è correlata al processo di concentrazione del potere, quindi al rafforzamento degli apparati di mantenimento dell’ordine, di disinformazione e di repressione dello Stato.
Se il capitale è la sostanza dell’uovo, lo Stato ne è il guscio.
Una crisi che mette in pericolo l’economia globalizzata, una crisi sistemica come si dice adesso, provoca una reazione difensiva quasi automatica, e riattiva meccanismi disciplinari e punitivi già esistenti.
Il capitale passa in secondo piano, ed è allora che lo Stato si palesa in tutta la sua pienezza.
Le leggi eterne del mercato possono andare in vacanza senza che la loro validità ne sia inficiata.
Lo Stato pretende di presentarsi come l’ancora di salvezza a cui la popolazione deve aggrapparsi quando il mercato si addormenta nella tana della banca e della Borsa. Mentre lavora per tornare al vecchio ordine, vale a dire, come dicono gli informatici, mentre cerca di creare un punto di ripristino del sistema, lo Stato svolge il ruolo del protagonista protettore, sebbene in realtà sia più simile a un giullare magnaccia. Malgrado tutto, e checché ne possa dire, lo Stato non interviene a difesa della popolazione, tanto meno delle istituzioni politiche, ma per difendere l’economia capitalista, e quindi il lavoro dipendente e il consumo indotto che caratterizzano lo stile di vita determinato da quest’ultima.
In certo qual modo, si protegge da una eventuale crisi sociale derivante da una crisi sanitaria, difendendosi cioè dalla popolazione.
La sicurezza che conta davvero per lo Stato non è quella delle persone, ma quella del sistema economico, quella solitamente definita sicurezza «nazionale».
Di conseguenza, il ritorno alla normalità non sarà altro che il ritorno al capitalismo:
ai quartieri alveari e alle seconde case, al rumore del traffico, al cibo industriale, ai trasporti privati, al turismo di massa, al panem et circenses…
Finiranno le forme estreme di controllo come il confinamento e il distanziamento tra gli individui, ma il controllo continuerà.
Niente è transitorio:
uno Stato non disarma volontariamente né rinuncia di buon grado alle prerogative che la crisi gli ha concesso.
Si accontenterà di «congelare» quelle meno popolari, come ha sempre fatto.
Teniamo a mente che la popolazione non è stata mobilitata, ma immobilizzata, quindi è logico pensare che lo Stato del capitale, in guerra più contro di essa che contro il coronavirus, tenti di curarne la salute imponendole condizioni di sopravvivenza sempre più innaturali.
Il nemico pubblico designato dal sistema è l’individuo disobbediente, l’indisciplinato che ignora gli ordini unilaterali impartiti dall’alto e rifiuta il confinamento, che non accetta di restare in ospedale e non mantiene le distanze.
Colui che non è d’accordo con la versione ufficiale e che non crede alle sue cifre.
È ovvio che nessuno rimprovererà ai responsabili di aver lasciato il personale sanitario e curante senza dispositivi di protezione e gli ospedali con un numero insufficiente di letti e di unità di terapia intensiva, né ai pezzi grossi di essere responsabili della mancanza di test diagnostici e di respiratori, né ai dirigenti amministrativi di aver trascurato gli anziani nelle case di riposo.
Non verrà puntato il dito nemmeno contro gli esperti della disinformazione, o gli uomini d’affari che speculano sulle serrate, o gli assicuratori avvoltoi, o coloro che hanno beneficiato dello smantellamento della sanità pubblica o che commerciano con la salute e le multinazionali farmaceutiche…
L’attenzione sarà sempre deviata, o meglio telecomandata verso altri aspetti: l’interpretazione ottimistica delle statistiche, l’occultamento delle contraddizioni, i messaggi governativi paternalistici, l’istigazione sorridente alla docilità da parte dei personaggi dei media, i commenti umoristici delle banalità che circolano sui social network, la carta igienica, ecc.
L’obiettivo è che la crisi sanitaria sia compensata da un livello più elevato di addomesticamento.
Che il lavoro dei dirigenti non venga messo in discussione per un nonnulla.
Che si sopporti il male e che s’ignorino coloro che l’hanno scatenato.
La pandemia non ha nulla di naturale; è un fenomeno tipico dello stile di vita malsano imposto dal turbocapitalismo.
Non è il primo e non sarà l’ultimo.
Le vittime non sono dovute tanto al virus quanto alla privatizzazione dell’assistenza sanitaria, alla deregolamentazione del lavoro, allo spreco delle risorse, all’aumento dell’inquinamento, all’urbanizzazione galoppante, alla ipermobilità, al sovraffollamento metropolitano e al cibo industriale, in particolare quello proveniente dai macro-sfruttamenti, luoghi in cui i virus trovano il miglior focolaio di riproduzione.
Tutte condizioni ideali per le pandemie.
La vita che deriva da un modello di industrializzazione in cui comandano i mercati è di per sé isolata: polverizzata, limitata, tecno-dipendente e soggetta a nevrosi, tutte qualità che favoriscono la rassegnazione, la sottomissione e il cittadinismo «responsabile». Sebbene siamo guidati da inutili, incompetenti e incapaci, l’albero della stupidità governativa non deve impedirci di vedere la foresta della servitù cittadina, la massa impotente disposta a sottomettersi incondizionatamente e a rinchiudersi per perseguire l’apparente sicurezza promessa dall’autorità statale.
La quale non usa premiare la fedeltà, ma diffida degli infedeli.
E per essa, siamo tutti potenzialmente infedeli.
In un certo senso, la pandemia è una conseguenza della spinta del capitalismo di Stato cinese nel mercato mondiale.
Il contributo orientale alla politica consiste principalmente nella sua capacità di rafforzare l’autorità dello Stato fino a livelli inimmaginabili grazie al controllo assoluto delle persone tramite la totale digitalizzazione.
A questo genere di abilità burocratico-poliziesca si può aggiungere la capacità della burocrazia cinese di mettere la stessa pandemia al servizio dell’economia.
Il regime cinese è un esempio di capitalismo tutelato, autoritario e ultra-produttivista generato dalla militarizzazione della società.
È in Cina che il dominio avrà la sua futura età d’oro.
Ci saranno sempre ritardatari pusillanimi a lamentarsi del declino della «democrazia» che comporta il modello cinese, come se ciò che definiscono così fosse la forma politica di un periodo obsoleto, che corrispondeva alla compiacente partitocrazia a cui partecipavano volentieri fino a ieri.
Ebbene, se il parlamentarismo comincia ad essere impopolare e maleodorante per la maggioranza dei governati, e se di conseguenza diventa sempre meno efficace come strumento di addomesticamento politico, ciò è in gran parte dovuto alla preponderanza che in questi nuovi tempi il controllo poliziesco e la censura hanno acquisito sugli intrighi dei  partiti.
I governi tendono ad usare lo stato d’allarme come abituale mezzo per governare, poiché le relative misure sono le sole che funzionano correttamente per il dominio nei momenti critici.
Tuttavia esse mascherano la vera debolezza dello Stato, la vitalità della società civile e il fatto che non è la forza a sostenere il sistema, ma l’atomizzazione dei suoi sudditi scontenti. In una fase politica in cui la paura, il ricatto emotivo e i big data sono indispensabili per governare, i partiti politici sono assai meno utili di tecnici, comunicatori, giudici e gendarmi.
Ciò che ora dovrebbe preoccuparci di più è che la pandemia non solo è il culmine di alcuni processi che arrivano da lontano, come quello della produzione alimentare industriale standardizzata, della medicalizzazione sociale e della irreggimentazione della vita quotidiana, ma avanza anche notevolmente nel processo di informatizzazione sociale.
Se il cibo-spazzatura come dieta alimentare mondiale, l’uso generalizzato di rimedi farmaceutici e la coercizione istituzionale costituiscono gli ingredienti di base della torta della vita quotidiana postmoderna, la sorveglianza digitale (coordinamento tecnico delle videocamere, riconoscimento facciale e tracciamento dei cellulari) ne è la ciliegina.
Si raccoglie quel che si semina.
Quando la crisi sarà passata, quasi tutto sarà come prima, ma il sentimento di fragilità e d’inquietudine durerà più a lungo di quanto vorrebbe la classe dominante.
Questo disagio della coscienza minerà la credibilità della vittoria di ministri e portavoce, ma resta da vedere se ciò potrà buttarli giù dalla poltrona in cui si sono installati. Qualora conservassero il proprio posto, il futuro del genere umano rimarrebbe nelle mani di impostori, perché una società capace di prendere in mano il proprio destino non potrà mai formarsi all’interno del capitalismo e in uno Stato.
La vita delle persone non potrà percorrere il cammino della giustizia, dell’autonomia e della libertà, senza staccarsi dal feticismo della merce, senza rinnegare la religione statalista, senza disertare gli ipermercati e le chiese.

Eterno apprendistato

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(Dal Web )

«Su tutti i piani: politico, morale, spirituale, materiale,
si sperimenterà ciò che c’è dietro il progresso: la morte.
Che sfida!
O l’Auschwitz della natura
O la Stalingrado dell’industria
Ogni predica è inutile. Il progresso si fermerà solo da sé,
grazie alle catastrofi che provocherà»
Così scriveva a metà degli anni 70 un poeta svizzero, il cui nome non compare nella lista dei precursori della pedagogia delle catastrofi tanto cara ai sostenitori della Decrescita.
Il loro indiscusso maestro Serge Latouche si è sempre dichiarato ottimista a proposito della capacità dei disastri di risvegliare la coscienza; sì… ma quale?
Quella della classe politica, spinta dalla forza degli eventi a riportare sulla retta via della frugalità un’umanità smarrita, resa sorda, cieca e muta dalla prolungata dipendenza tossica dal consumismo.
È una convinzione che fa capolino anche oggi, con circa metà della popolazione mondiale confinata in casa per sfuggire ad un virus ritenuto responsabile della morte di oltre 100.000 persone in tutto il pianeta.
E sarebbero gli anarchici quelli ingenui, gli illusi, gli abitanti sulla Luna!
Meno male che pragmatico, concreto, coi piedi piantati per terra, viene considerato chi pretende che la pace nel mondo sia garantita dagli eserciti, che le finalità delle banche siano etiche, o che a «decolonizzare l’immaginario» ci pensi il Parlamento!
A sostegno della sua argomentazione, Latouche ricorda fra l’altro che il disastro brutto e cattivo provocato dal «grande smog di Londra» — il ristagno di un miscuglio di nebbia e fumo di carbone che dal 5 al 9 dicembre 1952 causò nella capitale inglese 4.000 morti nell’immediato e 10.000 nel periodo successivo — portò quattro anni dopo all’istituzione della bella e buona legge Clean Air Act.
Il poveruomo dimentica non solo che il consumo di carbone da allora non è mai diminuito, anzi, è aumentato di pari passo all’inquinamento nelle metropoli, ma che già a Donora (Usa), dal 26 al 31 ottobre 1948, un miscuglio di nebbia e fumo delle acciaierie aveva causato 70 morti e rovinato i polmoni di 14.000 abitanti.
Allo stesso modo, non pare proprio che il disastro avvenuto nell’impianto chimico di  Flixborough (Inghilterra) l’1 giugno 1974 sia servito a prevenire quello verificatosi a Beek (Olanda) il 7 novembre 1975, e entrambi non hanno impedito la fuga di diossina avvenuta a Seveso il 10 luglio 1976.
Quale lezione è stata tratta da quelle tre tragiche esperienze?
Nessuna. Infatti il peggio doveva ancora arrivare e si verificò a Bophal (India) il 3 dicembre 1984, quando ci fu una vera e propria ecatombe: migliaia di morti e oltre mezzo milione di feriti per una fuoriuscita di isocianato di metile.
Vi risulta che alla fine gli stabilimenti chimici siano stati chiusi?
No di certo, e neanche si può dire che sia venuto meno l’uso industriale di sostanze nocive, se pensiamo al flusso di cianuro partito il 31 gennaio 2000 da una miniera d’oro in Romania che ha avvelenato le acque di diversi fiumi, fra cui il Danubio.
E i disastri provocati dalla produzione dell’oro nero, hanno mai insegnato qualcosa? L’incidente di una petroliera della ExxonMobil, incagliatasi il 24 marzo 1989 nello stretto di Prince William in Alaska, che ha causato lo sversamento in mare di oltre 40 milioni di litri di petrolio, non è certo servito ad impedire il naufragio della petroliera Haven, la quale il 14 aprile 1991 ha disperso 50.000 tonnellate di greggio nei fondali del mar Mediterraneo dopo averne bruciati 90.000 all’aperto.
Una bazzecola in confronto all’incidente del 20 aprile 2010 nel golfo del Messico, quando dalla piattaforma Deepwater Horizon dipendente dalla BP furono versati in mare per ben 106 giorni dai 500 ai 900 milioni di litri di greggio.
O vogliamo parlare della più micidiale delle industrie energetiche, quella nucleare? Senza soffermarsi a citare i 130 incidenti degli ultimi cinquantanni, quello avvenuto nella centrale statunitense di Three Mile Island il 28 marzo 1979 ha forse impedito quello accaduto nella centrale russa di Chernobyl il 26 aprile 1986? Manco per niente, in compenso entrambi hanno abituato gli animi a rassegnarsi anche a quello scoppiato a Fukushijma l’11 marzo 2011.
Tant’è che USA, Russia e Giappone continuano imperterriti, fra gli altri, a fare uso ancora oggi dell’energia atomica.
Ordunque, ammesso (e non concesso) che esista davvero una disponibilità ad imparare, cosa potrebbe insegnare l’attuale epidemia che sta terrorizzando il mondo intero?
Che bisognerebbe rinunciare alla deforestazione, all’urbanizzazione, agli aerei… oppure che si deve potenziare la ricerca scientifica, rendere obbligatoria la vaccinazione, estendere sempre più il controllo delle autorità «competenti»?
In altre parole, occorre fermare il progresso con i suoi effetti letali, oppure accelerarlo per superarli?
Non c’è dubbio che per quasi tutti la necessità di arrivare al benessere tramite uno Sviluppo portato avanti dallo Stato rimane un assioma, un tabù così assoluto da non dover nemmeno essere proclamato.
È questa la normalità di cui si reclama a gran voce il ritorno, e che non offre alcuna via d’uscita dalle sue false alternative.
Sospesa per decreto ministeriale, verrà ripristinata in forma ancora più abbrutita.
Il diritto alla movida garantito da un drone sopra la testa.
Il catastrofismo pedagogico non è che l’estremo rimedio del determinismo.
Finite nella polvere della storia tutte le preci alla fatalità liberatoria della Ragione, o del Progresso, o del proletariato, o delle contraddizioni intrinseche del capitalismo… non resta che un’improvvisa tragedia planetaria a promettere il lieto fine a chi non cessa di attendere che qualcosa accada, anziché agire per farla accadere.

Fidatevi

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( Dal Web )

Jacques Ellul
È ovvio, le centrali atomiche sono del tutto affidabili.
È ovvio, i missili ammassati, i sottomarini e i razzi, le bombe al neutrone e quelle all’idrogeno, i prodotti tossici al di fuori della guerra, i fusti e i contenitori di scorie radioattive e diossina, i cumuli di piombo e mercurio, lo strato sempre più spesso di anidride carbonica, tutto ciò non è pericoloso.
Non più, ci verrà detto, di quanto lo fossero i gas dell’ illuminazione nel 1850 o le prime ferrovie.

Poveri imbecilli traditori del progresso che non siamo altro, non abbiamo capito nulla.
Mai qualcuno farà l’ ultima delle ultime guerre.
Mai affonderanno le petroliere da 500.000 tonnellate, né perforeranno in modo irreparabile a tremila metri le sonde offshore.
Mai l’ ingegneria genetica devierà per produrre mostri o esseri perfettamente conformi al modello fissato.
Mai i tranquillanti, gli eccitanti, gli ansiolitici saranno una camicia di forza chimica generalizzata.
Mai cibi artificiali prodotti da agili batteri in azione andranno in putrefazione.
Mai l’ informatica sarà strumento di una polizia universale.
Mai le telecamere poste sui viali saranno l’ occhio che non si trova più nella tomba e che non è più di Dio.
Mai lo Stato diventerà totalitario.
Mai il gulag si espanderà.
Fidatevi.
Fidatevi quindi degli scienziati, dei laboratori, degli uomini di Stato, dei tecnici, degli amministratori, degli urbanisti, che vogliono tutti solo il bene dell’ umanità, che tengono bene in pugno il dispositivo e conoscono la giusta direzione.
Fidatevi degli analisti, degli informatici, degli igienisti, degli economisti, dei guardiani della Città (oh Platone, adesso li abbiamo!).


Fidatevi, perché la vostra fiducia è indispensabile a questa stregoneria.
[ La foi au prix du doute, 1980 ]

Delazioni e lezioni

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( Dal Web )

È notizia di ieri che, secondo un sondaggio, il 72% degli italiani ritiene sia giusto segnalare alle forze dell’ordine chi non rispetta i divieti anti-pandemia.
In particolare andrebbero segnalati eventuali assembramenti o festeggiamenti nelle case dei vicini.
Quasi tre italiani su quattro spiano i comportamenti dei loro vicini, pronti a chiamare la polizia se qualcuno ha l’ardire di incontrarsi e divertirsi con gli amici?
E che dire di tutti quei potenziali stragisti che osano andare a correre, portare a spasso il cane, far giocare i propri figli, magari con gli amichetti all’aria aperta?
È notizia di oggi quanto accaduto in Calabria ad un esemplare di questo 72%, il quale aveva postato in rete un video che ritraeva uno dei tanti controlli «per il contenimento epidemiologico» che avvengono per le strade.
In questo video aveva ripreso… ehm, come dire… la persona che non avrebbe dovuto riprendere… la persona sbagliata… o meglio, quella con il parente sbagliato. Quest’ultimo, una volta informato che un suo familiare era stato beccato in flagranza di divieto e messo alla gogna in rete, ha pensato bene di andare a congratularsi di persona con l’autore del video.
In effetti, per diffondere immagini simili bisogna proprio avere un alto senso civico, pregno di orgoglio nazionale.
Il parente sbagliato si è quindi presentato alla porta dell’appartamento da dove era stato fatta la ripresa, ha bussato, e dopo qualche inutile scambio di parole sul valore della riservatezza, ha estratto una pistola facendo risuonare tutta la sua ammirazione. Purtroppo il parente neanche poi tanto sbagliato è stato arrestato e quindi, dovendo da ora in poi stare rinchiuso in una cella anziché stare chiuso in salotto, non potrà più dispensare sagge lezioni di cazzisuologia.
Quanto al suo allievo involontario, trascorrerà il resto dei suoi giorni zoppicando.
Chissà se gli basterà per stare lontano dalla finestra e soprattutto per non ficcare il naso nella vita privata degli altri?

La maniera da tenersi per non aver paura, quando la Peste tira giù ogni cosa

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Etienne Binet
Composto nel 1628 in una Francia devastata dal flagello, l’opuscolo Sovrani et efficaci rimedi contro la peste e morte subitanea del padre gesuita Etienne Binet deraglia dai binari della letteratura spirituale dolorista.
Lungi dal fare una mera apologia della sofferenza, Binet cerca piuttosto di risvegliare lo spirito del lettore all’opportunità scaturita dalle disgrazie dell’epoca.
Un ottimismo radicale corre attraverso le sue pagine, ispirate da un certo candore nella fede.
Non potendo Dio volere il male, la peste nella sua distruttiva implacabilità deve essere decifrata come un segno — un messaggio rivolto all’umanità al fine di rimetterla sulla via smarrita.
Lo stralcio che presentiamo è tratto dall’edizione italiana, pubblicata nel 1656.
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Io non vi dirò già, che siade mestieri starsene come stordito, e vivere alla balorda, o pure che poco rilievi il mettersi con temerità ne’ pericoli.
In nessun modo: molto meno che voi viviate senza buon governo, e senza prevalervi de’ rimedi che ci ha donato Dio.
Né condanno quelle tre parole in questa materia eccellentissime, cioè Cito, Longe, Tarde. Andate via subito in paese ben lontano, e non pensate a ritornare così presto, anzi siate degli ultimi, al ritorno.
Ma io dico, che supposto che voi o non vogliate, o non possiate scansare il pericolo o l’apprensione, vi voglio suggerire maniere da vivere senza paura, e le ridurrò a tre capi, cioè alle ragioni, agli esempi e alle virtù.
Voi dite che tremate per la paura della peste.
Per le prime mosse io ve la perdono, perché so che il sangue agghiaccia, il cuore si smarrisce, e scolora il volto, prima che la ragione si sollevi e si riscuota a far fronte a certe sorpresaglie improvvise.
Alessandro il grande cominciava sempre le sue sattioni tremando tutte le membra, ma nel caldo della zuffa egli era un fulmine di guerra, che faceva tremare ogni cosa.
Ma che tremi la vostra anima, la vostra virtù, la vostra ragione?
O questo sì che ha del vergognoso.
Bisogna che la paura uccida e schiacci la paura stessa, perché non ha cosa che vi renda più soggetto alla peste, che la paura di questo male.
Ella è a guisa di un mastino poltrone, il quale fugge da chi lo seguita, e va dietro a chi lo fugge.
Ma la magnanimità e il coraggio sono gli veri antidoti della peste.
L’immaginazione ha questa possanza di alterare tutto il sangue, il timore spaventando l’immaginazione la mette nel pericolo di fare quell’impressione nel sangue, che vuol fare la stessa Peste.
Che cosa temete voi la morte, o la peste, o tutti due?
E non avete voi rossore di temere quella a cui bravano li vostri lacché, di cui si menan beffe le servette, e si muoiono ad un tratto, li fanciulli stessi che la scherzano nel cataletto.
È possibile che voi non abbiate altrettanto cuore quanto un villano, o mille donnicciuole, le quali neppure degnano mostrar paura.
Ma voi morirete, supponiamo, che così porti il caso; la scapperete voi co’ vostri terrori s’ell’è giunta l’ora vostra?
Tanti uomini da bene si muoiono, e sono altri uomini che voi non siete, mio caro amico, e che pensate esser voi?
Ha gente tanto temeraria e sciocca il mondo, dice Seneca, che vorrebbe che Dio tracangiasse gli elementi, e mutasse le sue leggi, anzi che ella distorsi dalle sue fantasie.
Alla fine che sarà poi?
Voi andarete là, dove sono tutti li vostri maggiori, e dove verranno tutti gli vostri discendenti, e quelli i quali ora stanno con esso noi, vi saranno ancor essi quanto prima, e forse prima di noi.
Deve recare consolazione andare là dove va tutto il mondo.
E non è già la lunga vita, o la morte agiata e dolce, che ci rende felici, ma è la buona vita e la buona morte? […]
Non è la morte, dite voi, ma la qualità della morte, che vi fa tremare.
Deh, che è cosa ridicola, darete voi dunque legge a Dio, ch’egli faccia modo vostro, e risappia da voi in qual maniera vi piaccia il morire?
Abbiate solamente cura che la vostra coscienza si trovi in buono stato, del resto ridetevi di voi medesimo.
Io vorrei, diceva già un Imperatore, se ho da essere strangolato, che non fosse che un laccio di seta e d’oro; se impiccato, non seguisse che ad una trave d’avorio o d’argento; se precipitato, non avvenisse che sopra l’abbia d’oro; se annegato, che mi accadesse nell’acqua rosa.
Qual vanità bestiale?
[Sovrani et efficaci rimedi contro la peste e morte subitanea, 1656]

Sull’immunità di gregge

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Non si può negare che quanto sta accadendo in tutto il mondo non abbia perlomeno avuto il merito di far capire cosa si intenda quando si parla di immunità di gregge.
Ci sembra un concetto rivelatore, in grado di far cogliere perfettamente la sua ambivalenza di significato.
Non ci stiamo riferendo alla sua accezione medica, ovviamente, ma a quella sociale.
In campo sanitario è quasi patetico il suo utilizzo, una vera e propria mistificazione che alimenta la confusione promettendo un’immunità che non può esserci.
L’immunità, quella vera, è infatti una condizione accertata e perenne che può essere acquisita soltanto in maniera naturale, passando attraverso la malattia (non qualsiasi malattia, però).
Con la vaccinazione si ottiene l’esatto opposto.
Nella migliore delle ipotesi si cerca di evitare la malattia costituendo in maniera artificiale una difesa biologica, insuperabile solo fino a prova contraria, e che per di più è spesso e volentieri momentanea.
È al tempo stesso un amuleto contro la malattia e un rimedio alla pigrizia, una scorciatoia industriale al lungo sforzo di alzare le proprie difese immunitarie.
Avete presente quelli che per «tenersi in salute» inghiottono pillole su pillole, piuttosto che fare la fatica di conoscersi e prendersi cura di sé?
Mangiano male e prendono farmaci, dormono male e prendono farmaci, vivono male e prendono farmaci.
I muscoli del culturista imbottito di steroidi sono paragonabili ai muscoli del ginnasta che fa esercizi quotidiani?
Con la vaccinazione accade la stessa cosa.
Ecco perché, proprio come accade con l’assunzione di farmaci e steroidi, la vaccinazione fa più male che bene, avvelenando e indebolendo ulteriormente l’organismo.
Ciò detto, a quale medico illuminato da un notevole senso dell’umorismo è venuto in mente di identificare l’umanità con un gregge?
No, lasciamo perdere, è solo lasciando l’ambito medico che il concetto di immunità di gregge appare in tutta la sua ineccepibile precisione.
Dicesi immunità di gregge l’immunità acquisita da chi esercita il potere (compiendo innumerevoli soprusi e disastri) dopo aver trasformato in gregge chi il potere lo subisce. Basti osservare la situazione odierna.
Chi è reso immune dal gregge popolare belante sicurezza, quello che canta in coro l’inno nazionale ed applaude le forze dell’ordine?
Non ci vuole molto per capire che chi denuncia gli irresponsabili che osano respirare aria fresca e sgranchirsi le gambe non fa altro che salvaguardare i responsabili che inquinano, avvelenano, contaminano.
Come se l’untore su cui scaricare la rabbia fosse chi cammina per strada, e non chi espone l’esistenza umana a mille pericoli seguendo ragioni di Stato o azioni di mercato.
Ma c’è un altra sfumatura di significato presente in questo concetto, ovvero che solo un gregge di pavide pecore può pretendere l’immunità.
Si tratta di una pretesa trasversale, che non conosce differenze di classe.
Infatti, se i ricchi la pretendono perché lavorano-producono-pagano, da parte loro i poveri la pretendono perché obbediscono-si rassegnano-consumano.
Nel cosiddetto migliore dei mondi possibili, quello presente della Scienza, del Progresso e dello Sviluppo, tutti rivendicano il loro inalienabile diritto all’immunità, rimanendo oggi sconvolti e terrorizzati dall’idea che il loro conto in banca o la loro servitù volontaria non possano impedir loro di finire come un Marco Aurelio, o un Tiziano, o un Apollinaire — stecchiti da una pandemia.
Che sciocco timore!
Nel caso odierno, i ricchi potranno facilmente procurarsi un respiratore artificiale in grado di ridurre al minimo tale rischio.
Quanto ai poveri, non hanno possibilità di passare alla storia in quanto vittime di un contagio.
Gli uni come gli altri diventeranno solo numeri di statistiche.
Quando cesseremo di considerarci vivi solo perché siamo nati?