Elettrosmog: aumentano i limiti. Ecco come difendersi

Dal Web

Dal 30 aprile scorso i limiti di esposizione della popolazione alle radiofrequenze sono passati da 6 a 15 Volt/metro e questo malgrado numerosi appelli di scienziati e ricercatori secondo cui, così facendo, non si rispetta il principio di precauzione.

Cerchiamo di capire come difenderci!

Dal 30 aprile scorso i limiti di esposizione della popolazione alle radiofrequenze sono passati da 6 a 15 Volt/metro e questo malgrado numerosi appelli di scienziati e ricercatori secondo cui, così facendo, non si rispetta il principio di precauzione.

Cerchiamo di capire come difenderci!

E per farlo si può cogliere l’opportunità di un incontro formativo promosso dall’associazione Paea che si tiene il 18 maggio presso il podere Alba Verde in Toscana con il l’ingegner Giordano Giannotti.

Ecco il programma della giornata

Ore 15.00 Conoscere gli effetti biologici dei campi elettromagnetici. Come difendersi dai campi elettromagnetici generati da dispositivi mobili (telefoni cellulari), da wifi, bluetooth. 

Spiegazione del funzionamento e potenziali rischi del 5G
Ore 16.30 Pausa
Ore 17.00 Come scegliere lo smartphone con minore inquinamento elettromagnetico e come schermare semplicemente la vostra wi-fi.

 A seguire, domande e confronto fra i partecipanti
Ore 18.30 Conclusione

Giordano Giannotti
Ingegnere elettronico, si occupa da circa 20 anni di progettazione ed installazione di energie rinnovabili (solare termico e fotovoltaico).

Uno dei suoi lavori più recenti è stata la misurazione dell’inquinamento elettromagnetico nella comunità/città di Auroville in India.

Fa anche formazione e informazione in collaborazione con l’Associazione P.A.E.A. (Progetti Alternativi per l’Energia e l’Ambiente).

L’incontro si tiene presso il Podere Alba Verde in Località Montebamboli 25/a, Comune di Massa Marittima (Grosseto)
Coordinate 43.067328,10.793177
Telefono 0566/216207
mail info@paea.it
L’evento viene proposto a contributo libero e consapevole, per dare la possibilità a chiunque di partecipare.
Per partecipare è necessario iscriversi inviando una mail a info@paea.it
Non sono previsti pasti e alloggio.
Non sono ammessi cani nella struttura
Si raccomanda la puntualità
I posti sono limitati

Italia ovvero Automobilandia

dal web

L’automobile in Italia è paragonabile alla mamma, o forse è anche più importante.

Siamo il paese dove scientemente si è deciso di dare carta bianca agli industriali di automobili e fargli fare qualsiasi cosa a loro piacimento.

E così siamo diventati un immenso garage e ci sono città come Roma con più veicoli a motore che abitanti.

di Paolo Ermani 

L’automobile in Italia è paragonabile alla mamma, o forse è anche più importante.

Siamo il paese che negli ultimi decenni è stato letteralmente disegnato e realizzato dai costruttori di palazzi, strade e autostrade, dove scientemente si è deciso di dare carta bianca agli industriali di automobili e fargli fare qualsiasi cosa a loro piacimento.

E così un paese come il nostro, che non è certo fatto per le automobili, è diventato un immenso garage e ci sono città come Roma con più veicoli a motore che abitanti.

La trovata di Henry Ford e i suoi emuli non fu quella di aver diffuso un mezzo di trasporto ma di essere riuscito a vendere a chiunque un mezzo di trasporto energivoro, inquinante, inefficiente, pericoloso e costoso, facendo credere che fosse un sinonimo di libertà ed emancipazione.

Con l’indispensabile appoggio della politica oliata a modo, è proprio il caso di dirlo, e con pubblicità a tutto spiano, si è imposto un modello di falsa mobilità. 

In Italia si sono regalati e si continuano a regalare valanghe di soldi agli industriali dell’automobile e degli spacciatori di combustibili fossili.

Per favorirli in tutti i modi si sono ridotti al minimo i mezzi pubblici, peraltro lasciati in condizioni disastrose, sono stati smantellati i filobus, penalizzato il treno e chiuse stazioni ferroviarie ovunque.

In queste condizioni ideali il successo dell’automobile era ed è assicurato.

Ma tale successo non sarebbe stato così potente se i magnati dell’automobile non avessero avuto dapprima politici e media dalla loro parte e poi dei formidabili alleati in tutti coloro che difendono a spada tratta l’automobile sempre e comunque.

E i fan dell’automobile a ogni costo sono diffusissimi, considerato che siamo i primi in Europa e fra i primi paesi al mondo con il maggior numero di automobili ogni mille abitanti, ben 684 e se si considera il totale dei veicoli su strada, il valore sale alla cifra monstre di 910 ogni 1.000 abitanti!!

E questo lo si può notare facilmente dai perenni imbottigliamenti nel traffico che portano via soldi e tempo di vita a milioni di persone ogni giorno. Infatti per la mobilità non c’è niente di più antieconomico e pericoloso dell’automobile.
Costa vari stipendi per acquistarla e mantenerla, non appena esce dal concessionario è già pesantemente svalutata, è quindi uno dei peggiori investimenti in assoluto che si può fare.

Paga bolli, parcheggi, garage, assicurazione, carburanti, provoca decine di migliaia di morti e feriti ogni anno, inquina, non viene riciclata integralmente, servono risorse preziose per costruirla che provengono dallo sfruttamento di persone e paesi di mezzo mondo, è l’apoteosi dell’inefficienza perché una tonnellata e mezza porta mediamente una persona di 60/80 chili, è ferma per circa 22/23 ore al giorno, ci va una sola persona, nonostante abbia normalmente 5 posti occupabili. Eppure qualsiasi misura, per quanto blanda e inefficace, tesa a ridurre la diffusione dell’uso dell’auto o dei motori inquinanti è accolta con levate di scudi e scandalo.

Le timidissime proposte di riduzione della velocità nelle città a 30 all’ora vengono ridicolizzate, si fanno crociate in favore di coloro che abbattono autovelox in giro, con addirittura sindaci che non condannano più di tanto la cosa, visto che non vogliono essere impopolari.
Aspiranti capipopolo che inneggiano ai suddetti abbattitori di autovelox per una presunta salvaguardia delle tasche degli italiani, gli stessi italiani che in quanto a buttare soldi sempre e comunque, sono invincibili e inarrivabili campioni del mondo.

Però se gli tocchi l’automobile, apriti cielo!

Ma visto che a noi non interessa essere capipopolo, non ci interessa aumentare i follower esibiti come biglietti da visita, né tanto meno ci interessa fare carriere politiche, ci permettiamo di andare un po’ controcorrente.
E’ infatti strano che i difensori delle automobili sempre e comunque, meglio se inquinanti, non dicano mai che le automobili sono di per sé praticamente tutte illegali.

Come giustamente fa rilevare l’amico Alessandro Ronca, se il limite di velocità è 130 chilometri orari, non si capisce perché possano essere costruite automobili che vadano a velocità che superano ampiamente questo limite.
Sono già pericolose di per sé, se poi le facciamo andare a velocità altissime, la strage è assicurata. 

Ma non sembra che questi “dettagli” che comportano migliaia fra morti, feriti e invalidi, interessino gran che, né ai costruttori di automobili, né ai loro difensori a oltranza.
Già decenni fa in varie città del nord Europa si sono istituiti i limiti a 30 chilometri orari e nessuno si sognava di dire che era una follia, anzi, spesso in paesi e cittadine attraversate dalle strade, si vedono cartelli fatti dalla cittadinanza stessa che rafforzano il concetto, specialmente in vicinanza di scuole.
Contro questa misura sensata in Italia se ne sono sentite dire di tutti i colori, un campionario da insulto all’intelligenza che fa rimanere sgomenti.

Che a 30 all’ora si consuma di più in barba a qualsiasi logica e scienza dove è ovvio che più premi l’acceleratore e più consumi, che le motociclette e i motorini cascano se vanno a quella velocità e difatti nei paesi dove hanno i 30 all’ora (ad esempio luoghi periferici e poco importanti come Parigi…) si assiste giornalmente alla caduta di migliaia di motociclisti per terra…

Dichiarazioni per le quali con i 30 all’ora i turisti non verranno più, perché è risaputo che il turista viene in Italia per sfrecciare sulle strade come se fosse a Indianapolis.

Oppure che la lentezza aumenterebbe gli ingorghi, come se non fosse già così anche se si mettesse il limite di 5 chilometri orari…

Tutte dichiarazioni che quando le riporti a uno straniero, magari proveniente da paesi dove hanno adottato queste misure da tempo, ti guarda sbalordito come se lo stessi prendendo in giro.

Argomenti così assurdi e senza senso che si rimane basiti che qualcuno li possa anche solo pronunciare. Nemmeno in un bar frequentato da avvinazzati se ne sentirebbero di così roboanti.
La velocità è una delle maggiori cause di incidenti ed è evidente che la misura dei 30 all’ora è presa per fare in modo che si vada almeno a 50/60 all’ora nelle nostre città dove la gente quando può sfreccia incurante del pericolo che produce.
Il fan dell’automobile sempre e comunque non tiene poi presente che in città, vista la vicinanza fra case, negozi e strade, ci sono tanti pedoni che attraversano le strade, quindi è fondamentale che siano protetti e per un pedone o un ciclista cambia molto essere investito a 50 o più all’ora che non a 30 all’ora, ma della vita dei pedoni o dei ciclisti, agli automobilisti interessa assai poco, basti vedere come si fermano prontamente alle strisce pedonali; ma questi sono dettagli insignificanti per i crociati della automobile.

E i crociati dovrebbero poi sapere che lo spazio di frenata è minore all’aumento della velocità ma mi rendo conto della difficoltà di comprendere un ragionamento tanto complesso…
Altre affermazioni deliranti a favore dell’auto sono che se piove mica puoi andare in bici, se nevica figuriamoci, come se l’Italia fosse confinante con la Siberia.
Chissà, magari questa gente non è mai uscita dal proprio palazzo ma sono proprio i paesi che hanno adottato da decenni i 30 all’ora che vanno in bici, e indovinate dove sono questi paesi?

Proprio dove piove spesso, nevica, tira vento e fa un freddo cane con inverni lunghissimi, cioè Germania, Olanda, Danimarca, ecc.

Quindi secondo i fan della velocità, in questi paesi le biciclette dovrebbero essere sconosciute e dovrebbero tutti girare con SUV corazzati perché con il tempo che c’è…

E invece guarda caso questi paesi “incivili” nonostante gli orsi polari e le tempeste di neve, hanno in proporzione meno automobili del nostro paese e vanno più in bicicletta, saranno di sicuro pazzi.

E già questo dimostra che le crociate a favore dell’automobile, sono probabilmente fomentate da chi vende automobili e combustibili fossili, altrimenti non si spiega la protervia nel dimostrare l’impossibile o l’assurdo coprendosi di ridicolo.
I detrattori delle mobilità alternative poi dicono che se devi portare qualcosa, non lo riesci a portare con la bici.

Niente di più falso perché ci sono pure le bici cargo e la gente che le usa ci porta di tutto, compresi bambini, spesa, ecc, al contrario delle auto dove la gente non si porta normalmente nulla a parte se stesso o se stessa e spostando almeno una tonnellata e mezza di peso, rispetto ad una bici che pesa tra i 10 o 15 chili….

La totale inefficienza pagata cara, con la super efficienza gratis.
E ancora, i detrattori dicono che se ti devi spostare, mica ci puoi andare in bici o a piedi, non scherziamo, per loro bisogna andare in auto anche al bagno.

Peccato che l’ignoranza anche qui la fa da padrona, perché prima di parlare i crociati dovrebbero informarsi, anche se capiamo che costa fatica e impegno mentale.

Gli spostamenti in auto avvengono per quasi il 30% in un raggio da 0 a 2 chilometri ed è ovvio che per distanze così stratosferiche la macchina è indispensabile, lo capirebbe chiunque, no?

E complessivamente il 75% degli spostamenti avviene in un raggio di 10 chilometri che considerato il perenne traffico, una bicicletta, monopattino, skateboard, triciclo, mulo, girello o quello che volete, percorre in media più velocemente di un auto.
E a dimostrare che in bici può andare chiunque è la famiglia di Linda Maggiori con ben quattro bambini, anche autrice del bel libro Vivo senza auto, che fa un’analisi interessante e approfondita della genesi dell’auto in Italia, la sua colonizzazione del paese e di come sia possibile per chiunque emanciparsi dall’auto.

E se ci è riuscita una famiglia di sei persone, ci può riuscire davvero chiunque, se lo vuole.
In conclusione la crociate a favore delle automobili sono solo un grande, ennesimo regalo e servizio a favore dei potenti del pianeta, le multinazionali dell’automobile e dei combustibili fossili che continuano a inquinare, provocare incidenti e prosciugare le tasche degli italiani che di questo possono ringraziare di cuore anche i crociati dell’automobile sempre e comunque.

ATTI SPETTACOLARI DI GUERRA COME STRUMENTO DEL POTERE

dal web

Le analisi sul Medio Oriente non possono prescindere dall’importanza dei gruppi locali e dalla loro costante interazione con i vertici di governo dei rispettivi paesi.

L’uso della minaccia esterna per perpetuare le logiche delle élite dominanti.

I casi di Iran e Israele.

di Lorenzo Trombetta

Lo spettacolare attacco missilistico iraniano senza precedenti contro Israele, avvenuto nella notte tra sabato 13 e domenica 14 aprile, è stato osservato in numerosi teatri globali e mediorientali, con una miscela di paura in alcune piazze e di giubilo in altre.

Una rappresentazione trasmessa – tramite social network – in tempo reale e perfettamente sincronizzata con l’apparire, a ritmo sincopato, delle “notizie urgenti” scandite in sovrimpressione sugli schermi delle emittenti di tutto il mondo.

L’orto autoirrigante: soluzione adatta ovunque, dal terrazzo al campo

Dal Web

La soluzione low-tech, semplice e realizzabile in autocostruzione, dell’orto autoirrigante sta prendendo sempre più piede.

È versatile, adattabile praticamente ovunque e permette di usare poca acqua e poco lavoro.

Quello dell’orto autoirrigante è un sistema valido per coltivare senza fatica e in luoghi dove c’è poco o nulla di suolo fertile e poca disponibilità idrica.
Lo spiegano molto bene Alessandro Ronca e Paolo Ermani nel loro libro “L’orto autoirrigante. Coltivare con poco lavoro e poca acqua in campagna e in città”.
 
Uso su balcone o piccoli spazi
Questa tecnica si presta perfettamente a essere utilizzata anche in città sul balcone.
Basta poter realizzare delle cassette, di misura inferiore rispetto al bancale 120 x 80 cm, che possano stare comodamente, e senza gravare troppo nel peso, in un balcone largo anche solo un metro.
Nel libro vengono illustrati alcuni esempi e progetti su come realizzare con un minimo di manualità il vostro sistema agricolo da balcone.
Per verificare la fattibilità di questa applicazione tecnica, Alessandro Ronca aveva cominciato a coltivare sul lastricato antistante la sua abitazione.
Aveva iniziato con una cassetta di 60 x 40 cm ed era arrivato ad averne ben dodici, tutte coltivate con diverse essenze.
Poi successivamente le aveva collegate tra loro in modo da poter condividere la riserva idrica che ciascuna poteva offrire.
 
Uso ornamentale e trasformazione di vasi o recipienti in autoirriganti
Lo scopo è quello alimentare, ma è possibile utilizzare gli orti autoirriganti anche come sistema per far crescere piante ornamentali; si possono anche modificare anfore esistenti trasformandole in anfore autoirriganti e coltivarvi fiori all’interno.
Nel libro ci sono le indicazioni su come è possibile trasformare qualsiasi recipiente in un vaso autoirrigante.
L’autonomia sarà limitata ma pur sempre ottimizzata, offrendo alla specie vegetale il perfetto quantitativo equilibrato di acqua che farà esprimere il massimo dello splendore e rigogliosità alla pianta. Oltretutto si potrà ottenere un vaso autoirrigante esattamente nello stile e materiale che più aggrada.
 
Tetto o contesti più ampi con materiali riciclati
Sempre nel contesto urbano, ci sono spesso dei terrazzi o lastrici solari in cima a palazzi che possono essere trasformati in un orto urbano utilizzando in questo caso i bancali con misura standard, 120 x 80 cm, e i paretali per chiuderli.
Accertandosi che il solaio possa sostenere il peso che andremo a posizionare, nel manuale di Ronca ed Ermani ci sono dettagliate informazione su come trasformare un pallet in un bancale autoirrigante e su come utilizzare questa tecnica in qualsiasi contesto urbano o anche rurale, utilizzando principalmente materiali di recupero.
 
Ambiente rurale con e senza suolo e poca acqua a disposizione
Paolo Ermani ha affiancato Ronca nella sperimentazione degli orti autoirriganti in contesti rurali.
Hanno costruito veri e propri bancali utilizzando mattoni avanzati dalla ristrutturazione dell’abitazione;
i bancali erano simili a quelli che si usano nella tecnica dell’orto sinergico (circa 8 metri di lunghezza per 1 di larghezza).
Nel loro libro sono disponibili tutta la documentazione, gli schemi e i materiali per poter realizzare cassoni produttivi.

30 anni fa lo scoop fatale di Ilaria Alpi

Dal Web

di Gianluca Zanella

Il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, Somalia, è un giorno di ordinaria follia.

Le truppe italiane, integrate nell’operazione a guida delle Nazioni Unite Restore Hope, stanno infatti smobilitando, così come anche quelle americane, belghe, francesi e svedesi, lasciando il terreno libero a bande armate e criminali fino a quel momento rimaste a margine dopo l’intervento a gamba tesa dell’occidente volto a stroncare la guerra civile scoppiata dopo la caduta del dittatore Siad Barre.

Ilaria Alpi, inviata del Tg3, muore il 20 marzo 1994, a Mogadiscio, assieme all’operatore Miran Hrovatin. Aveva 33 anni e stava indagando su traffici d’armi legati alla guerra civile in Somalia. ARCHIVIO – ANSA – KRZ

L’agguato dalle dinamiche mai chiarite

In questo contesto di fuggi fuggi generale, una jeep sfreccia diretta a Mogadiscio, di ritorno dal porto di Bosaso, città costiera in quel momento controllata dal “sultano” Abdullahi Moussa Bogor.

Su quella Jeep, oltre all’autista e a un uomo armato di scorta, ci sono la giornalista Rai Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin.

A Bosaso hanno fatto un’intervista proprio a lui, il sultano, capo dei ribelli migiurtini.

Due ore di registrazione, stando alla testimonianza resa anni dopo dallo stesso Bogor.

Ci torneremo.

Ilaria e Miran stanno rientrando in albergo per lavorare il materiale che, come anticipato da Ilaria in una delle sue ultime comunicazioni con la redazione, è esplosivo.

Purtroppo non arriveranno mai a destinazione.

Quanto accaduto nei pressi dell’ambasciata italiana di Mogadiscio, a pochi metri dall’hotel Hamana, è da trent’anni un mistero che né i processi, né una commissione parlamentare d’inchiesta sono riusciti a dipanare. 

Un mistero alimentato da false testimonianze, depistaggi, menzogne alimentate da personaggi che di volta in volta si sono presi la scena per recitare la loro commedia, insensibili verso la tragedia di una madre e un padre che fino alla fine dei loro giorni si sono battuti invano per la verità.

Un agguato.

Di certo si sa solo questo.

I colpi di arma da fuoco sparati non si capisce da dove, se da lontano, come stabilito in una prima fase di indagini, o se a distanza ravvicinata, tipo un’esecuzione, come stabilito da un’autopsia sul corpo di Ilaria disposta solo dopo due anni dall’omicidio.

L’altra cosa certa di questa storia è che alla redazione di Rai Tre giunsero solamente circa 13 minuti di girato.

Il mistero delle registrazioni manipolate

Le cassette con il girato ripreso a Bosaso giunsero a Roma insieme ai corpi di Ilaria e Miran, chiuse in un borsone sigillato che, però, fu ritrovato aperto.

A togliere i sigilli, un giornalista della Rai che spiegò di aver ricevuto preciso incarico dal direttore generale, anche se poi, in sede di Commissione, il suo racconto mutò sensibilmente e si riempì di “non ricordo”.

Del contenuto esplosivo annunciato da Ilaria qualche giorno prima della morte, restano appena 13 minuti.

Possibile fosse tutto qui?

Difficile da credere, soprattutto perché di questi 13 minuti, quelli davvero interessanti non sono più di cinque.

Ad aggiungere mistero sull’integrità di questi filmati anche la testimonianza – per quanto controversa – di Abdullahi Moussa Bogor, che, sentito in Commissione Alpi nel 2006, affermò che l’intervista rilasciata alla giornalista uccisa superava abbondantemente le due ore.

Il porto dei misteri

Nonostante una certezza su come siano davvero andate le cose quel giorno di trent’anni fa non c’è, è molto probabile che la causa dell’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vada ricercata in quell’ultima intervista raccolta a Bosaso, cittadina nel nord della Somalia, piuttosto defilata rispetto alla ben più centrale e caotica Mogadiscio.

Un luogo di mare dove Ilaria non è capitata per caso.

Bosaso era probabilmente uno dei centri nevralgici dei traffici di armi e rifiuti su cui da tempo la giornalista stava indagando, supportata da un fiuto investigativo invidiabile e avvalendosi di fonti di primissima mano.

Ormai è accertato un collegamento tra Ilaria e l’agente segreto Vincenzo Li Causi, ucciso proprio in Somalia pochi mesi prima, anche lui in circostanze mai del tutto chiarite.

Sono in tanti a ritenere che Li Causi avesse indirizzato Ilaria sulla pista giusta da seguire.

Una pista che potrebbe averla portata fino al “sultano” Bogor.

Le navi Shifco

Il video dell’intervista, o meglio, del frammento superstite, è reperibile facilmente in rete.

Ilaria è di spalle, l’obiettivo di Miran riprende in primo piano Abdullahi Moussa Bogor, che sembra a suo agio nel rispondere in un italiano pressoché perfetto a domande di carattere generale sulle condizioni di vita in quella regione della Somalia.

I due sono in sintonia, scherzano, il clima è disteso.

Poi Ilaria trova il varco in cui infilarsi:

“Senta, cambio completamente argomento, parlano di questo scandalo di questo proprietario somalo con passaporto italiano, si chiama Mugne, che avrebbe preso queste navi che erano proprietà dello Stato e le avrebbe usate per uso privato”.

Ilaria si sta riferendo a Omar Said Mugne, un nome che torna spesso in molte vicende torbide.

Su di lui, per esempio, stava indagando anche Mario Ferraro, altro 007 del Sismi morto in circostanze a dir poco dubbie nel 1995.

Lo scandalo di cui parla – uno scandalo a dire il vero non così noto in Italia, almeno in quel momento – riguarda la flotta di pescherecci riconducibili alla società Shifco, di cui Mugne era amministratore, ma il cui socio di maggioranza era italiano: Paolo Malavasi.

L’uso privato cui allude Ilaria, vedeva questi pescherecci, donati dal governo italiano a quello somalo negli anni Ottanta, trasportare non pesce, ma armi e rifiuti.

Nel sentire questa domanda, Bogor sembra colto di sorpresa.

Guarda velocemente in camera e poi, riferendosi a Mugne, risponde con una domanda: “Lui? Lui solo?”

La società italiana

Ilaria ride e specifica “Beh, lui con altre persone, le chiedo di spiegarmi cosa è successo”.

Il sultano comincia il suo racconto.

Dice che Omar Said Mugne era a capo della flotta Shifco già prima di quello che chiama il “collasso”, ovvero la caduta di Siad Barre e l’inizio della guerra civile: “Quando è venuto il collasso, si è preso le navi, ha fatto scendere gli equipaggi somali in Tanzania e se l’è squagliata con le navi in Italia”.

Poi aggiunge un dettaglio: “Parte di questa proprietà apparteneva ad una società italiana […] Mugne non era niente e non è niente tutt’ora.. è la società che manovra”.

Ilaria chiede il nome della società, che evidentemente è qualcosa di diverso rispetto alla Shifco, di cui è a conoscenza.

Il somalo ride “tu lo sai il nome”, le dice.

Ilaria insiste, ma il sultano la prende in giro, le dice che allora lo deve scoprire da sola, che deve guadagnarsi il pane.

Anche sullo sfondo si sentono delle persone ridere divertite dal siparietto che si è venuto a creare. Tuttavia, all’improvviso, Bogor si fa serio: “Non posso, sai, queste società hanno..” fa un gesto con le mani, quasi a voler indicare i tentacoli di una piovra, poi termina la frase: “Hanno dovunque dei lacché”.

Il denaro non dà la felicità

dal web

Il detto secondo cui “il denaro non dà la felicità” si cita a volte per cercare di dare qualche speranza a chi pensa ancora che il denaro non sia la pietra angolare di ogni aspetto della nostra esistenza. 

La realtà è un’altra e cioè che ormai il denaro è il fine di tutto e, anche se non dà la felicità, però rimane al primo posto delle preoccupazioni e impegni.

di Paolo Ermani 

 Un recente studio fatto dall’università Autonoma di Barcellona 
ha sfatato questa prassi riportando il detto alla sua verità.

Si è appurato che le persone più felici del pianeta sono quelle che hanno entrate modeste ma che vivono in forti contesti comunitari e a contatto con la natura e spesso sono le “arretrate” popolazioni indigene.

E così anche le scienze accademiche, i sacri palazzi del sapere ci danno ragione.

Ma in fondo non ci volevano studi e ricerche per scoprire l’ovvio che noi affermiamo da tempo.
Basta guardare la nostra società per rendersene conto.

Siamo strapieni di cose che le persone comprano costantemente, circondati da merci di ogni tipo, dove regna l’opulenza e dove lo spreco è la prassi.

Siamo nel paese dei balocchi eppure non si è mai assistito a un periodo in cui le persone fossero così senza speranza, depresse, insicure, impaurite dal futuro a tinte sempre più scure.
La comunità è un lontano ricordo, sostituito da protesi artificiali chiamate telefoni cellulari che fanno comunicare con tutto il pianeta per poi rimanere spesso drammaticamente soli.

La natura è sempre più assente soprattutto dalle città e dalla mente delle persone.

Quei pochi alberi che resistono vengono abbattuti per fare posto al progresso del 5G e altre assurdità simili, che oltre a essere una potenziale minaccia per la salute, velocizzeranno e aumenteranno ancora di più, se possibile, l’isolamento umano e il suo conseguente avvilimento.
Tutto realizzato per raggiungere il guadagno, la performance, migliorare la prestazione.

Ma come potrebbe darci la felicità un elemento come il denaro per il quale facciamo una vita frenetica, corriamo tutto il giorno, ci ammazziamo di lavoro, siamo sempre indaffarati e preoccupati che non ci basti mai.

Non basta nemmeno ai benestanti delle società ricche, men che meno a chi ne ha tantissimo e che più ne ha e più ne spende, più ne spende e più ne deve avere.

Se ha l’appartamento di lusso, vuole il Suv, se ha il Suv, vuole la macchina sportiva, se ha la macchina sportiva, vuole la villa al mare, in montagna, il viaggio ai tropici, vestiti costosissimi e così via in una rincorsa infinita ad inseguire una impossibile felicità data da qualcosa che per propria natura non può darla.
Chi ha capito che la felicità si basa su ben altri parametri rispetto ai soldi, ora viene chiamato “povero” (che non vuol dire misero), però è felice, perché non gli manca nulla della vera ricchezza, cioè una vita dignitosa, una comunità vicina e presente quindi le relazioni, la natura quindi la bellezza, la semplicità, pochi pensieri su aspetti inutili per avere felicità e tanti pensieri utili che la possono dare.

Avere del tempo per vivere quindi per arricchirsi di bellezza interiore, cosa che l’uomo denaro non conosce più da tempo.

E così il super iperfanta tecnologico homo stupidus viene ridicolizzato da gente indigena che lo guarda come si può guardare uno strano essere che rincorrendo i soldi vive male e distrugge pure il mondo in cui vive.

Come farà mai ad essere felice un soggetto simile?
Quando si decantano tutti i fantastici progressi e i balocchi che la società del denaro ci mette a disposizione, ci si chieda se per davvero ci fanno felici, se forse non ci siano altri occhi con cui vedere la realtà, magari proprio immedesimandosi con quei “poveri” di cose e straricchi di essere.

La carne sintetica inquina fino a 25 volte di più

Dal Web

Da uno studio universitario emerge che la carne coltivata in laboratorio ha un alto impatto ambientale: da 4 a 25 volte superiore rispetto a quella tradizionale.

Gli impatti della carne sintetica sull’ambiente

La produzione della carne sintetica prodotta in laboratorio (meglio definirla carne artificiale) è molto più impattante dal punto di vista ambientale rispetto a quella naturale proveniente dalla zootecnia tradizionale.

Ad affermarlo lo studio “Environmental impacts of cultured meat: A cradle-to-gate life cycle assessment“, realizzato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Davis, in California, e pubblicata sul portale bioRxiv.
Gli autori hanno calcolatole le variabili necessarie a ogni fase della produzione di carne artificiale focalizzandosi su energia, reagenti biologici e chimici.

In particolare, le sostanze nelle quali vengono fatte crescere le cellule staminali utilizzate per ricavare la carne avrebbero un forte impatto sull’ambiente, a partire dai processi di trattamento per evitare la formazione di tossine o batteri.

Sono così arrivati a quantificare che la produzione di ogni chilo di carne coltivata potrebbe emettere nell’ambiente equivalenti di COda 4 a 25 volte rispetto alle emissioni della produzione tradizionale.

“Va notato che il confine di questa valutazione del Ciclo di Vita si ferma all’impianto di produzione della carne coltivata e non include le perdite di prodotto, la conservazione a freddo, il trasporto e altri impatti ambientali associati alla vendita al dettaglio della carne bovina“, si legge nello studio:

“L‘inclusione di tali processi post-produzione aumenterebbe il potenziale di riscaldamento globale dei gas ad effetto serra della carne sintetica”.

Insomma, gli attuali sistemi di produzione che sono di piccolissima scala industriale, se portati a livello produttivo necessario per una significativa sostituzione della produzione mondiale di carne, risulterebbero più inquinanti dell’allevamento di bestiame.

Il business della carne in vitro

La carne sintetica finora è prodotta in quantità limitate, eppure gli investimenti in questo comparto continuano ad aumentare, arrivando a oltre 2 miliardi di dollari.
Un entusisamo probabilmente legato alle stime degli analisti che sono ottimisti sulle alternative alla carne. In alcuni report si prevede una sostituzione del 60-70% della carne macinata entro il 2030-2040 (Suhlmann et al., 2019; Tubb & Seba, 2019).

Di contro, report più recenti sono più modesti e le previsioni di sostituzione stimano mezzo punto percentuale di prodotti a base di carne convenzionali con prodotti di carne da laboratorio entro il 2030.

Zootecnia tradizionale

La produzione zootecnica è una componente fondamentale del sistema alimentare globale, considerato che fornisce proteine di base (latte, uova e carne) consumate in tutto il mondo, contribuisce alla produttività delle colture attraverso l’utilizzo del letame come fertilizzante naturale (necessario per le coltivazioni bio) e fornisce nutrimento e reddito essenziali alle famiglie svantaggiate nei Paesi a basso e medio reddito.

La produzione globale di carne è aumentata da 70,57 milioni di tonnellate nel 1961 a 337,18 milioni di tonnellate nel 2020, anno in cui la carne di manzo e di bufalo rappresentava il 22% della produzione mondiale di carne, mentre il pollame e la carne di maiale rappresentavano rispettivamente il 39% e il 32% della produzione.

In prospettiva, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura prevede che la domanda complessiva di carne raddoppierà entro il 2050.

La soluzione è virare su carne sintetica? Non proprio.

I fan della carne artificiale stanno tentando di far passare questo prodotto come la via maestra per ridurre gli impatti ambientali associati alla produzione tradizionale da zootecnia.

Tuttavia, lo studio della UC Davis dimostra che la produzione in laboratorio è ad altissimo impatto ambientale.

“Il problema principale degli studi preesistenti sulla bontà dei modelli tecnologici legati alla carne di laboratorio è che non riflettono nel dettaglio i vari fattori che intervengono nei sistemi di produzione“, si legge a conclusione dello studio.

“La nostra valutazione ambientale si basa sui sistemi di processo più dettagliati possibili, arrivando alla conclusione che l’impatto della carne coltivata sarà probabilmente superiore a quello legato alla carne bovina tradizionale.

Si tratta di una conclusione importante, dato che sono stati stanziati cospicui investimenti con la tesi che questo prodotto sarà più rispettoso dell’ambiente rispetto alla carne bovina.”

La zappa sui piedi che si danno gli agricoltori che protestano

Partiamo dal fatto che l’agricoltura industriale attuale non ha niente a che vedere con la produzione di cibo, poiché l’agroindustria lo considera solo una merce.

Mai detto fu più azzeccato di quello della zappa sui piedi che si danno gli agricoltori che protestano in alcuni paesi europei, anche se c’è da dire che la zappa è praticamente sconosciuta all’agricoltura moderna, che si muove su trattori giganteschi che nel terreno fanno solchi di oltre mezzo metro; forse perché vogliono trovare il petrolio direttamente nel campo?

Partiamo dal fatto che l’agricoltura industriale attuale non ha niente a che vedere con la produzione di cibo, poiché l’agroindustria lo considera solo una merce. In quanto merce è trattato nel peggiore dei modi e l’agricoltore non ha più alcuna relazione con la natura; del resto sarebbe difficile averla quando la si combatte costantemente per ottenere un prodotto che è il risultato di una serie di pesanti interventi chimici.
Cosa c’entra infatti con la sacralità del cibo e della natura che lo produce, l’utilizzo di concimi chimici, pesticidi, fungicidi, erbicidi che distruggono praticamente tutto quello che trovano sul cammino lasciando lande desolate che l’anno successivo, per fare crescere qualcosa, necessiteranno di ancora più quantità di questa roba?
E che dire dell’inferno degli allevamenti intensivi, a causa dei quali si provocano sofferenze inenarrabili a miliardi di animali, si distruggono terreni e foreste, si inquina l’impossibile e si utilizza cibo che potrebbe sfamare tre volte le popolazione mondiale attuale?

E tutto questo per poi vendere una carne che produce numerose problematiche di salute a chi la mangia.
Ma nemmeno tutto ciò basta; la logica del profitto senza scrupoli ci regala anche gli organismi geneticamente modificati ovvero la ciliegina sulla torta della follia.

Come si fa quindi a protestare per difendere una agricoltura nociva di questo tipo?

Caso mai si dovrebbe protestare per fare cessare questo suicidio economico, ambientale, alimentare e sanitario.
Le proteste poi sono genericamente per avere redditi più alti, contro il caro gasolio, i prezzi che aumentano e contro le timidissime politiche ambientali che l’Unione Europea cerca di introdurre in maniera come vedremo inefficace, ipocrita e anche contraddittoria.

All’agricoltore industriale tradizionale, nella stragrande maggioranza dei casi, non interessa nulla che si devasti l’ambiente, si produca un cibo che è tutto tranne che cibo, si dipenda mani e piedi dai combustibili fossili, per lui conta vendere una merce, quindi più profitto ha e meglio è.

E con tale ottica qualsiasi provvedimento, seppur insufficiente, per tentare di tutelare un pochino l’ambiente e la salute dei consumatori, viene visto come un attacco inaccettabile al proprio profitto.

Le multinazionali dei fossili e dell’agro business sono ben contente di questo tipo di proteste, che ribadiscono il trionfo di chimica e combustibili fossili e che quindi permettono di continuare a fare incassi stratosferici sulla salute di persone e ambiente, utilizzando strumentalmente gli agricoltori.

Inoltre le stesse multinazionali ringraziano anche tutti i media che si schierano con queste proteste e il paradosso è che i tifosi sono proprio quegli stessi media che dicono di essere contro i poteri forti, in un corto circuito mentale che ha del ridicolo.

L’ipocrisia quindi è di tutte le parti in causa, anche dell’Unione europea che stende tappeti rossi alle lobby delle multinazionali e poi fa qualche blanda leggina in favore dell’ambiente che ovviamente avrà effetti minimi.

E sono anche risibili le presunte politiche verdi di qualche paese che vorrebbe fare convivere la crescita infinita in un mondo dalle risorse finite, con la tutela ambientale.

La cosa è di per sé impossibile, non può esistere una crescita verde, è un ossimoro, una contraddizione in termini; da qui la schizofrenia di leggi e provvedimenti che ovviamente non saranno né efficaci, né accettati da coloro ai quali si dice che il profitto è l’unico dio da adorare e allo stesso tempo che si deve proteggere l’ambiente.

Chi ha interesse a capire o sapere qual è una nozione e pratica di agricoltura reale, perché produce non merce ma cibo sano che non avvelena né le persone, né l’ambiente, può leggersi il libro sugli orti auto irriganti.

A differenza di tanti libri a tema agricolo, non si limita a dare una soluzione tecnica ma illustra una diversa concezione di agricoltura da noi denominata leggera, che rimette al centro la natura e la conseguente tutela della persona.

Un’agricoltura che è legata alla rinascita della comunità, che permette di essere più indipendenti dal cosiddetto mercato che strangola tutti.

Inoltre si tratta di una agricoltura che persegue l’autosufficienza alimentare cioè la vera sovranità, obiettivo che può essere preso in considerazione da chiunque e, grazie al sistema degli orti auto irriganti, ovunque.
L’Italia è già un paese meraviglioso dove cresce praticamente qualsiasi cosa si pianti, non abbiamo bisogno né di chimica, né di schifezze varie per coltivarci tutto quello di cui abbiamo bisogno, basta​ accendere il miglior motore che abbiamo, che non è quello di un trattore ma del nostro meraviglioso cervello.

Export delle armi senza controlli. Le destre assestano il colpo di grazia alla trasparenza

Dal web

Con tre emendamenti la maggioranza “sbianchetta” dalla relazione le banche coinvolte nel business dell’export di armi.

Ora i signori delle armi vogliono ritoccare la normativa.

Nell’iter per la modifica della legge 185/90 che regolamenta l’export militare le Commissioni Affari Esteri e Difesa di Palazzo Madama hanno infatti approvato nella seduta di martedì 16 Gennaio scorso tre emendamenti che inficiano gravemente la trasparenza della Relazione annuale al Parlamento sulle esportazioni dall’Italia di materiali militari.

CON TRE EMENDAMENTI LA MAGGIORANZA SBIANCHETTA DALLA RELAZIONE LE BANCHE COINVOLTE NEL BUSINESS DELL’EXPORT DI ARMI

Il ddl del governo aveva destato già la preoccupazione della Rete Italiana Pace Disarmo e l’Osservatorio Permanente Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa di Brescia che in audizione lo scorso 17 ottobre avevano sottolineato la cancellazione della prescrizione per cui il Cisd riceve informazioni sul rispetto dei diritti umani anche da parte di enti internazionali e dalle organizzazioni non governative, la eliminazione dell’Ufficio di coordinamento della produzione di materiali di armamento che potrebbe pregiudicare le attività di confronto con la società civile e l’armonizzazione della raccolta dati sull’export di armi, la non attribuzione di una funzione di stimolo a ipotesi di conversione delle imprese militari (prevista già nei principi fondamentali della Legge 185/90).

La legge che potrebbe essere un’occasione per aumentare la trasparenza sul commercio di armi e rendere strutturali le modalità con cui vengono redatte le Relazioni al Parlamento sul tema rischi di diventare un’occasione di ulteriore opacità.

La Commissione Affari Esteri e Difesa del Senato ha infatti approvato nella seduta di martedì 16 gennaio 2024 tre emendamenti che inficiano gravemente la trasparenza della Relazione annuale al Parlamento sulle esportazioni dall’Italia di materiali militari.

E che si innestano su un testo che presenta già aspetti problematici, come sottolineato in audizione da Rete Pace Disarmo, perché modifica i meccanismi di rilascio delle autorizzazioni affidando il cuore delle decisioni all’ambito politico senza un adeguato passaggio tecnico che garantisca il rispetto dei criteri della legge italiana e delle norme internazionali sulla materia.

Se le modifiche votate in questa prima fase di dibattito parlamentare sul DDL 855 sopravvivono ai successivi passaggi dell’iter verranno sottratte al controllo di Parlamento, società civile e opinione pubblica le informazioni precise e dettagliate – oggi presenti nella Relazione annuale ufficiale – sulle esportazioni dei materiali militari autorizzate e svolte dalle aziende.

“Particolarmente negativo – commenta Giorgio Beretta dell’Osservatorio Opal – è l’emendamento proposto dalla relatrice volto ad eliminare ogni informazione riguardo agli Istituti di credito operativi nel settore dell’import/export di armamenti.

I correntisti non sapranno più dalla relazione quali sono le banche, nazionali ed estere, che traggono profitti dal commercio di armi verso l’estero, in particolare verso Paesi autoritari o coinvolti in conflitti armati”.

Oltre al merito a preoccupare l’ Osservatorio Opal è anche il metodo già visto durante questa legislatura: bocciati praticamente tutti gli emendamenti proposti dalle minoranze, nonché alcuni importanti emendamenti proposti dalla relatrice del provvedimento (la Presidente della Commissione Craxi) che andavano nella direzione di un miglioramento di controlli, meccanismi decisionali e trasparenza sull’export di armi.

“Nonostante nostre ripetute e circostanziate richieste non si fa nemmeno riferimento ai criteri del trattato internazionale sul commercio di armi che l’ Italia ha ratificato con voto unanime del Parlamento nel 2013.

Assenza grave, che la Rete Pace Disarmo andrà sicuramente a contestare impugnando il testo di Legge, se questa formulazione verrà confermata fino alla fine dell’iter” evidenzia Francesco Vignarca, coordinatore campagne della Rete Italiana Pace Disarmo.

Per l’associazione risulta “evidente come il Governo intenda favorire e concretizzare una richiesta di revisione delle norme in vigore ripetutamente richiesta negli ultimi anni dall’industria militare e da Istituti di ricerca ad essa vicini in un’ottica di facilitazione delle esportazioni di armamenti a favore della competitività dell’industria militare”, la cui funzione è stata sempre enfatizzata, erroneamente, come “strategica” per il “rilancio” dell’economia nazionale.

Un puro e semplice regalo agli interessi armati, in direzione contraria ai principi delle norme nazionali ed internazionali”, scrive Opal.

L’ITALIA CONTINUA A ESPORTARE INGENTI QUANTITÀ DI ARMAMENTI

Tutto questo mentre l’Italia continua a esportare ingenti quantità di armamenti in in decine di situazioni di conflitto, di violazione diritti umani, di presenza di regimi autoritari come invece sarebbe e espressamente vietato dalle norme in vigore.

Le associazioni ora temono che con la legge in discussione la situazione “possa solo peggiorare” riportando l’ Italia a uno stato di opacità e debole regolazione della vendita di armi cui era stato posto un freno con l’approvazione dell’innovativa Legge 185 nel 1990.

Comincia la transizione dalle fonti fossili? L’energia del 2024 tra guerre, ambizioni UE e realpolitik

dal web

L’anno appena iniziato sarà cruciale dal punto di vista energetico.

Sullo sfondo delle guerre in Ucraina e a Gaza gli impegni presi alla Cop28 potrebbero cambiare dopo le tante elezioni in giro per il mondo previste nel 2024.

Dalle rinnovabili al nucleare fino alla ccs, ecco cosa possiamo aspettarci

Dire che il 2024 proseguirà sulla scia del 2023 appare un’ovvietà, eppure dal punto di vista energetico è un’affermazione essenziale per provare a immaginare che anno sarà quello che è appena cominciato.

Ciò vale soprattutto per l’Europa, incastrata in due guerre – quella in Ucraina e quella a Gaza – che secondo le valutazioni di analiste e analisti sono conflitti destinati a durare a lungo.

Col risultato di confermare i nuovi equilibri energetici delineati sin dal 2022, e cioè la sostituzione di un unico fornitore di gas a basso prezzo, cioè la Russia, con una serie di Paesi mediorientali e africani, dal Qatar all’Azerbaijan, dall’Egitto all’Algeria.

In questo senso il 2024 sarà cruciale per il Vecchio Continente: se da una parte l’Ue conferma la volontà di sostenere l’Ucraina, e dunque di fare a meno del gas russo, un possibile allargamento del conflitto nel Golfo, con l’eventuale e temuto coinvolgimento dell’Iran, rovinerebbe i piani delle istituzioni comunitarie, da sempre fragilissime sul fronte dell’indipendenza energetica e con gli Stati membri che, al di là degli annunci, continuano a muoversi in ordine sparso.

D’altra parte la crisi energetica scaturita tra il 2021 e il 2022 non ha ancora smesso di perpetuare i suoi effetti nocivi sull’intera Unione europea, afflitta da un’inflazione ancora molto alta e da una stagnazione economica che si ripercuote anche su una produzione industriale (vedi Germania e Italia) molto bassa. Il prezzo del gas sul mercato TTF di Amsterdam è sceso ai valori del 2021 ma ciò non ha significato un ritorno ai prezzi di tre anni fa: un chiaro segnale che i prezzi dell’energia sono destinati a rimanere alti in Europa, anche per via del forte affidamento al GNL, il gas naturale liquefatto che per sua natura è soggetto alle fluttuazioni del mercato e alle speculazioni finanziarie.

Durante l’inaugurazione della presidenza belga del Consiglio dell’Ue, iniziata ufficialmente l’1 gennaio e che durerà fino alla fine di giugno, appena in tempo per assistere all’esito delle elezioni europee dal 6 al 9 giugno, la presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen ha annunciato che la Commissione “presenterà un’iniziativa sugli obiettivi climatici per il 2040, in seguito al successo ottenuto dall’UE nel fissare nuovi obiettivi globali sulle energie rinnovabili e sull’efficienza energetica a livello globale durante la Cop28”.

E proprio dall’annuale conferenza sui cambiamenti climatici si può ripartire per comprendere, dopo aver delineato il contesto generale, quali sono le prospettive future.

Leggi anche: Peggio che con la Befana: nuovo record globale nel consumo di carbone

Il 2024 e l’energia che verrà dopo la Cop28

Quando la Cop28 di Dubai si è chiusa a metà dicembre in molti hanno scomodato l’aggettivo “storico”, per via della decisione finale che per la prima volta ha sancito una “transizione dalle fonti fossili”. Tuttavia le criticità di quella formula sono molte, come abbiamo raccontato, a partire dal fatto che stati e aziende fossili sono riuscite a inserire una tecnologia come la cattura e lo stoccaggio di carbonio (ccs), utile a mantenere il “business as usual” e soprattutto a confermare la centralità dell’industria oil&gas.

In questo modo il 2024 potrebbe davvero essere l’anno della svolta per la ccs, che fino a questo momento ha invece arrancato tra costi insostenibili e scarsissime riduzioni delle emissioni.

Mentre adesso potrà approfittare del consenso esplicito espresso dalle Nazioni Unite ed è facile prevedere che gli investimenti aumenteranno in maniera esponenziale.

D’altra parte proprio nei giorni della Cop28 un rapporto McKinsey, una delle più note e discusse società di consulenza al mondo, scriveva che “si prevede che entro il 2030 gli investimenti globali nella capacità di rimozione del carbonio raggiungeranno tra i 100 e i 400 miliardi di dollari”.

Il report, intitolato “Carbon removals: How to scale a new gigaton industry”, indica dieci soluzioni tra cui, appunto, le varie forme di cattura e stoccaggio di carbonio.

E nel 2024 il vero banco di prova per questa  tecnologia sarà proprio in Italia: entro quest’anno Eni e Snam prevedono di avviare l’impianto pilota dell’hub di Ravenna, che recentemente è stato inserito dalla Commissione europea tra i PIC, i Progetti di Interesse Comune, con la conseguenza che l’intero progetto, che prevede anche la raccolta dell’anidride carbonica nel distretto industriale di Marsiglia, potrà essere finanziato con soldi europei.

Altra forma di energia che potrebbe essere beneficiata dal documento finale della Cop28 è il nucleare: anche per esso, così come per i combustibili fossili, è stata la prima volta in cui è stato menzionato esplicitamente, insieme alla ccs come “tecnologie a zero e a basse emissioni”.

Non un posto di primo piano ma comunque un appiglio forte per quei governi che dipendono già dall’energia nucleare, come la Francia e gli Stati Uniti, e per quelli che guardano con favore a questa opzione, come l’Italia.

Il governo Meloni, infatti, ha promosso nell’anno che si è appena concluso la “piattaforma nazionale per un nucleare sostenibile”.

L’obiettivo è di definire già quest’anno una “strategia nazionale” che presumibilmente escluderà la possibilità di realizzare centrali nucleare di grande taglia, relative alla cosiddetta terza generazione, ma si pronuncerà sui reattori nucleari di quarta generazione, che sono più sicuri, economici, affidabili e meno inquinanti rispetto ai predecessori.

Tuttavia, dato che sono ancora in una fase sperimentale, questi reattori vedrebbero la luce nel prossimo decennio.

Mentre le energie rinnovabili, pronte da tempo a rivoluzionare l’approccio fin qui perseguito, dopo anni di crescita esponenziale potrebbero proprio nel 2024 conseguire risultati straordinari e decisivi.

O no?

Leggi anche: lo Speciale sulla Cop28

Il possibile cambio di scenario dopo le elezioni del 2024

Tornando alla Cop28, il risultato più atteso, e anche quello più prevedibile, è stato l’impegno di più di 130 governi nazionali, inclusa l’Ue, a triplicare la capacità installata di energia rinnovabile nel mondo fino ad almeno 11mila gigawatt entro il 2030.

Un obiettivo che appare ambizioso e allo stesso tempo alla portata.

In attesa di capirne di più sulla fattibilità di tale traguardo – a breve l’Agenzia Internazionale dell’Energia rilascerà un report specifico dedicato alle rinnovabili, ma c’è da aggiungere che negli ultimi anni i dati dell’IEA hanno peccato di eccessiva fiducia verso i governi nazionali – c’è da ricordare che il 2024 è anche l’anno delle elezioni.

Sono attesi al voto 76 Paesi in giro per il mondo, vale a dire metà della popolazione mondiale dovrà, o per meglio dire dovrebbe, recarsi alle urne.

L’orizzonte energetico tracciato dalla Cop28 potrebbe essere in parte ribaltato dall’esito delle votazioni.

Se dalla Russia, dall’India e dall’Iran non ci si attendono sorprese – e dunque verranno confermati gli attuali assetti basati sulle fonti fossili – il voto più atteso riguarda l’Unione europea.

Se a giugno dovessero essere confermati i “venti da destra” che soffiano praticamente su tutto il Continente, le rinnovate istituzioni europee si troverebbero governate da esponenti che sulla crisi climatica sono “riduzionisti” quanto non apertamente “negazionisti”, e che dunque potrebbero ridimensionare di molto le ambizioni del Green Deal e puntare su una real politik ancora una volta basata su carbone, petrolio e gas.

Scenario ancora più preoccupante riguarda gli Stati Uniti, che a novembre potrebbero ritrovarsi addirittura a scegliere il ritorno di Donald Trump – che nell’ex presidenza ha confermato in maniera massiccia l’utilizzo del discusso fracking, con il quale gli Usa sono diventati indipendenti sull’ approvvigionamento di petrolio e gas o, ipotesi più probabile, con una presidenza debole di Joe Biden, che potrebbe confermare la volontà di perseguire gli obiettivi interni, lasciando alla Cina il ruolo di Paese leader delle energie rinnovabili e rinnovando l’intesa con le cosiddette petromonarchie del Golfo.

Fondamentale poi il voto di alcuni Paesi dell’America Latina, soprattutto Messico e Venezuela: si tratta di Stati ricchissimi di idrocarburi, che potrebbero scegliere la strada della “nazionalizzazione” o dell’apertura alle esportazioni.

Le recenti votazioni in Argentina e Brasile confermano che in questo momento storico chi va a votare predilige governi forti e decisi, che intendono dire la loro anche dal punto di vista energetico.

Leggi anche: Come produrre energia sfruttando il calore delle fogne

Cosa aspettarsi dal G7 a guida italiana?

Intanto dall’1 gennaio 2024 l’Italia ha assunto la presidenza del G7, il gruppo che riunisce, oltre il nostro Paese, Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti d’America, e la manterrà fino al 31 dicembre dell’anno in corso.

L’appuntamento principale, il vertice dei leader del G7, si svolgerà dal 13 al 15 giugno in Puglia.

Nel sito in costruzione dedicato ad hoc alla presidenza del G7 il governo Meloni, pur senza citare esplicitamente l’energia, lascia intendere che sarà uno dei temi fondamentali delle riunioni tecniche e degli eventi istituzionali.

Se è vero che alle questioni specifiche “clima, energia e ambiente” sarà dedicata una tre giorni a Torino, dal 28 al 30 aprile, è evidente che per la premier Giorgia Meloni le questioni energetiche si intrecciano con altri fattori, dalle migrazioni all’industria, dai trasporti alla finanza.

Di sicuro ampia centralità verrà data all’Africa.

“La sfida è costruire un modello di partenariato vantaggioso per tutti, lontano da logiche paternalistiche o predatorie” scrive il governo Meloni.

Eppure lo strumento principale per favorire questo intento, vale a dire il Piano Mattei, è ancora in alto mare: dopo l’annuncio dato a ottobre 2022 nella richiesta di fiducia alla Camera, il 2023 è trascorso nella faticosa stesura di una “governance” finora apparsa insoddisfacente.

Se ne dovrebbe sapere di più alla Conferenza Italia-Africa, prevista per fine mese.

“Quello che va fatto in Africa è difendere il diritto a non dover emigrare prima del diritto a poter emigrare.

E questo si fa con investimenti e con una strategia” ha detto Meloni durante la conferenza stampa di fine anno.

Dal punto di vista energetico la strategia del governo è quella di fare affidamento sull’Africa per poter diventare un “hub del gas”.

Non proprio la più rosea delle aspettative per il 2024 e per qualsiasi altro anno.

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