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Guastafeste

( dal web )

Cosa c’è di più irritante di un compleanno, di un rituale prestabilito che ogni anno ti ricorda che un bel giorno sei nato senza averlo chiesto, rimandandoti a scadenza fissa al tempo che passa fino alla tomba?

Per non parlare di quelle cifre tonde che in base all’arbitrarietà del sistema decimale dovrebbero sfociare in una di quelle feste dove l’ipocrisia sociale raggiunge l’acme.

Eppure, ciò che vale per l’individuo che può sempre districarsi dalle ricorrenze sparando sull’orologio, assume un’altra dimensione quando il dominio decide di autocelebrarsi.

Allora non si tratta più del filo di Crono che si allunga, ma dello spettacolo del padrone che si manifesta per intimare agli schiavi l’enormità della loro servitù.

Come un eterno presente il cui solo orizzonte è costituito da catene forgiate col medesimo acciaio: quello dell’autorità.

Le pubbliche commemorazioni di avvenimenti del passato costituiscono un buon esempio del duplice uso degli anniversari da parte dei potenti in carica.

Da un lato, imprimere la loro versione della storia nella mente delle persone e, dall’altro, riaffermare la loro legittimità attraverso una continuità regolarmente scossa dal basso dalle rivolte.

In Italia, ad esempio, la Festa della Liberazione fissata il 25 aprile (1945) corrisponde alla data che segna la presa dei pieni poteri da parte del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), mentre lo sciopero generale insurrezionale a Torino e Milano era cominciato il 18 e il 23 aprile, e Napoli era già insorta nel settembre 1943 scacciando gli occupanti nazisti.

Così come è  il 28 aprile, tre giorni dopo, la data in cui Mussolini fu giustiziato dai partigiani e il suo cadavere appeso in Piazzale Loreto a Milano.

Ma la scelta di quella data avrebbe certo ricordato in modo troppo crudo la guerra civile tra i pro- e gli anti-fascisti, a scapito di una «riconciliazione nazionale» allora auspicata sia dai conservatori che dal partito comunista al fine di spartirsi in santa pace il potere.

Quanto ai nazisti, le truppe tedesche si sono arrese agli angloamericani il 2 maggio, segnando la definitiva liberazione del territorio della penisola.

Ma quest’ultima data avrebbe ovviamente lasciato troppo poco spazio alla resistenza nazionale.

Una delle conseguenze dell’istituzione di una ufficialissima Festa della Liberazione fin dall’aprile 1946, mentre i fascisti sarebbero stati amnistiati in massa a partire da giugno per venire in parte riciclati nell’apparato di Stato repubblicano, è che quei rivoluzionari che hanno proseguito la lotta per la libertà nei mesi e negli anni successivi, dopo l’aprile 1945 sono ridiventati «banditi» e «criminali» come sotto il fascismo, e non più «partigiani».

Qui la questione va ben oltre le controversie commemorative e i confini della legalità.

È legata piuttosto al fatto di agire in prima persona senza attendere date esterne o masse fluttuanti, a partire dalle proprie temporalità, dalle proprie idee e da esperienze radicate in fondo alle proprie viscere.

Allo stesso modo, non si tratta di rinunciare all’utopia dato che i tempi sono spesso senza speranza (e quando non lo sono?), ma per farvi fronte esser capaci nel contempo di coltivare un mondo interiore singolare e di sviluppare le nostre proiezioni su quello che ci circonda: per non lasciarci più semplicemente trascinare dalle burrasche della storia, dobbiamo pur iniziare a fare la nostra.

Per dirla con le parole di un compagno come Belgrado Pedrini, che come altri non aveva atteso la rottura del patto tra Stalin e Hitler per combattere armi in pugno contro il fascismo, né si era fermato quel 25 aprile, «Si faccia o no la rivoluzione, io farò la mia». 

Ma non c’è bisogno di valicare le Alpi per produrre immaginari legati più all’eternità dell’oppressione statale che alla sua distruzione.

Pensiamo ad esempio alla Rivoluzione del 1789, che i dirigenti di questo paese brandiscono ancora oggi come un totem d’immunità quasi culturale, mentre esportano le loro armi in ogni angolo del pianeta (se il massacro nello Yemen, ad esempio, vi dice qualcosa).

Ma no, suvvia, niente di tutto questo, noi siamo la patria dei Diritti dell’Uomo!

E la presa della Bastiglia, non è persino diventata la nostra Festa Nazionale?

Una festa che tra l’altro è stata indicata nel 14 luglio quasi cento anni più tardi, nel 1880, dopo parecchi cambiamenti sotto forma di compromesso tra borghesi liberali e conservatori… certamente in relazione alla presa della Bastiglia, ma anche alla Festa della Federazione dell’anno successivo, che vide il Re prestare giuramento alla Costituzione dopo una messa celebrata da 300 sacerdoti e davanti a un Te deum intonato dalla folla.

In quest’ultima scelta, nessuna visione di teste reali mozzate, tutt’altro, né di assalti ad arsenali militari da parte degli insorti per impadronirsi della polvere e dei cannoni.

Con questa data è in sostanza un intero movimento, difeso dall’esperienza di un Varlet nel suo opuscolo del 1794, che la continuità repubblicana del potere avrebbe voluto cancellare dalla memoria ribelle: «Per qualsiasi essere senziente, governo e rivoluzione sono incompatibili…».

Infine, al di là della sacralizzazione dello Stato o della proprietà tramite incisione della loro autorità nella pietra marmorea di una Dichiarazione Universale, ricordiamo che uno dei successi poco conosciuti di quel periodo è stato inoltre l’importazione in diverse lingue comuni di due concetti del dominio che avrebbero presto colonizzato le menti: «vandalismo» e «terrorismo».

Il primo termine, coniato nel 1794 da un deputato a partire dal nome di una popolazione considerata la più barbara di tutte (i Vandali), mirava a porre fine alle pratiche di chi continuava ad attaccare le chiese e i castelli per distruggerne il contenuto, come nei bei tempi andati.

Attraverso l’invenzione del vandalismo, la ragione di Stato ha inteso arrogarsi il monopolio delle buone distruzioni fattori di progresso — in chiave contemporanea sommergendo villaggi per costruire dighe, radendo al suolo quartieri poveri per farvi passare un treno o costruirvi torri di uffici, distruggendo una montagna per estrarre il litio — opponendosi a quelle malvagie, per forza di cose irrazionali.

Ovvero a tutte le altre distruzioni diverse dalle proprie, quelle praticate in modo autonomo, a maggior ragione se attaccano beni fondamentali per lo Stato.

Il secondo termine, risalente anch’esso all’anno 1794, designava il regime di terrore politico del Comitato di Salute Pubblica. 

Non si nominavano gli attacchi provenienti dal basso contro il potere, per spaventare e squalificarli, ma si indicava il terrore di Stato esercitato in modo indiscriminato.

Mentre alcuni gruppi come i populisti russi tentarono di riappropriarsi della parola all’inizio del secolo scorso, nello stesso periodo il potere comprese l’uso interessato che avrebbe potuto farne rovesciandone il significato contro chi gli si opponeva mediante l’azione diretta.

Una confusione che si è rapidamente diffusa con l’aiuto dei suoi portavoce di massa (prima la stampa popolare poi la radio), ed è così che ad esempio i sabotatori di reti elettriche, di linee ferroviarie o di fabbriche di armi diventavano partigiani o terroristi a seconda che fossero amici o nemici di uno dei regimi in carica, vale a dire sostenuti dalle potenze alleate o vilipesi dal regime nazista.

Così come lo stesso atto di sabotaggio compiuto dagli stessi individui durante gli scioperi insurrezionali del 1947 e del 48 sarebbe diventato «terrorista» piuttosto che «di liberazione» a detta degli stessi dirigenti… ormai passati dagli scranni dell’opposizione a quelli del potere.

Ancora una volta, era una data ormai anniversario destinata a fare la differenza, l’8 maggio 1945. 

Lo scorso 4 settembre, al Pantheon, la crema progressista del paese si è stretta attorno a Macron per celebrare nientemeno che «un momento fondante del modello repubblicano», ovvero il 150° anniversario della Terza Repubblica (1870).

Sì, sì, quella che si concluse quando 572 dei suoi deputati e senatori riunitisi al Gran Casino di Vichy votarono per i pieni poteri a Pétain.

Quella che, prima di realizzare la sua grande opera a suon di massacri coloniali, feroce industrializzazione, leggi scellerate e macellerie della prima guerra mondiale, aveva caratterizzato l’inizio del suo regime con il repubblicano squartamento di 20000 insorti della Comune. 

All’interno del pesante edificio in pietra bianca, proprio sotto i piedi dei potenti assisi in ranghi meno serrati del solito, c’è la tomba di un grand’uomo in putrefazione che probabilmente li ha lasciati perplessi.

Si tratta del primo presidente della Repubblica la cui carriera è stata tagliata di netto prima del suo termine.

Che bel giorno è stato quel 24 giugno 1894, quando il pugnale dell’anarchico Sante Caserio è penetrato a fondo nel fegato di Carnot, liberandolo definitivamente del peso del suo fardello. Contrapporre il nostro 24 giugno omicida alla loro ultima buffonata istituzionale del 4 settembre potrà apparire magari ridicolo a molti, ma è più che altro assurdo, tanto la nostra dimensione, quella della qualità, è radicalmente diversa dalla loro, quella della politica.

La cosa più importante qui è infatti che un compagno di carne e ossa come noi, un nemico dell’autorità come noi, abbia deciso di forzare il destino armato di coraggio e di determinazione, realizzando la propria storia.

«Se il governo usa contro di noi i fucili, le catene, il carcere, dovremmo, forse noi anarchici che difendiamo la nostra vita, restare chiusi in casa?»

chiese non senza ironia Caserio alla giuria, dopo aver già risposto a modo suo.

È nel corso della nostra stessa vita, di fronte alle sfide del presente, che ognuno dovrà trovare la propria risposta.

Come solo calendario in tasca, la nostra irragionevole passione per la libertà.

Sarà guerra!

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( Dal Web )

Hythe, Alberta (Canada), a metà degli anni 80. Animato da una certa visione della vita, un piccolo gruppo di persone decide di allontanarsi dalla società dei consumi per fondare una comunità in cui mettere in pratica le proprie idee. Non chiedono niente a nessuno, non impongono niente a nessuno, vogliono solo vivere nella maniera che reputano più giusta. Comprano un centinaio d’ettari di terreno e con le loro stesse mani costruiscono case, coltivano campi, allevano bestiame. Diventano quasi del tutto autosufficienti, da ogni punto di vista. Vivono in pace e tranquillità per anni, senza disturbare nessuno.
Finché un giorno quel mondo moderno da cui erano scappati, li trova e li circonda. Sotto la loro terra infatti c’è del gas, un enorme giacimento di gas. Le industrie del gas e del petrolio iniziano a trivellare pozzi nei pressi della loro comunità, avvelenando l’aria che respirano e l’acqua che bevono. I loro animali iniziano ad ammalarsi, loro iniziano ad ammalarsi.
E loro, cosa fanno? Fanno ciò che qualsiasi altra persona comune, normale, farebbe: si rivolgono alle autorità competenti, scrivono lettere di protesta, cercano di far valere i propri diritti. Ma nel giro di pochi anni si accorgono che tutte queste sono solo «stronzate legalitarie». Le autorità non proteggono la salute dei cittadini dall’avidità delle industrie, semmai proteggono i profitti delle industrie dalla rabbia dei cittadini. Le trivellazioni continuano, provocando talvolta delle fughe di gas. I loro animali iniziano a morire, i loro figli iniziano a morire.
E loro, cosa fanno? Non sono una comune di rivoluzionari, nient’affatto. Sono una comunità di cristiani. Non hanno un progetto politico o un’utopia sociale da realizzare, hanno una fede religiosa in cui credono. Non hanno un mondo infernale da sovvertire, hanno un piccolo angolo di paradiso da difendere. Ma l’industria e la politica, l’infame matrimonio tra la tracotanza del denaro e l’ipocrisia della legge, non concedono loro molte alternative: o rassegnarsi al peggio, magari accontentandosi di qualche risarcimento simbolico, o andarsene altrove.
Il discorso si sarebbe chiuso qui se non fosse che quella comunità, chiamata Trickle Creek, è stata fondata ed è guidata da un pastore alquanto particolare. Il suo nome è Wiebo Ludwig e non assomiglia in nulla al mite prete che invita a porgere l’altra guancia, semmai all’infuocato profeta che caccia i mercanti fuori dal tempio (verrà descritto come «il fulmine di una tempesta avvolto dalla carne di un uomo»). Si è già scontrato con la sua famiglia ed i vertici della sua chiesa, si scontrerà con le multinazionali dell’energia, con la polizia e con gli altri abitanti della regione. Industria e politica mentono, poiché esiste una terza possibilità oltre alla rassegnazione e alla fuga. Dopo aver preso atto dell’assoluta inutilità di una trattativa con le istituzioni, della totale incompatibilità fra la ricerca del profitto e la cura dello spirito, Wiebo Ludwig capisce che il solo rapporto possibile fra il mondo sacro e quello profano è la guerra. Come John Brown un secolo e mezzo prima nella lotta contro la schiavitù, quest’uomo di Dio prenderà le armi e diventerà il più noto eco-sabotatore del Canada. Il più noto, ma non certo l’unico, considerato che negli anni 90 si sono verificate centinaia di azioni dirette contro pozzi e oleodotti nella regione settentrionale dello Stato di Alberta, molte delle quali presero di mira proprio la compagnia attiva nei pressi di Trickle Creek.
Allora, di fronte a tutto ciò, ha forse importanza che le idee di Wiebo Ludwig fossero quelle cristiane?
Ha forse importanza che a Trickle Creek si leggesse la Bibbia, e non qualche testo sacro rivoluzionario?
La storia della lotta ventennale di Wiebo Ludwig e della sua comunità contro l’industria del gas e del petrolio non è stata solo oggetto di numerosi articoli e di qualche libro. Conosce anche una testimonianza fuori dal comune, ovvero il documentario che il regista David York ha realizzato proprio a Trickle Creek (dove visse a lungo come ospite fra il 2008 e il 2010). Benché ateo, York riuscì a conquistarsi la fiducia di Ludwig e degli altri appartenenti alla comunità, i quali gli diedero alcuni video da essi stessi realizzati su quanto accaduto negli anni precedenti. York era presente anche nel corso della lunga perquisizione di Trickle Creek effettuata in seguito all’arresto di Ludwig, sospettato di essere l’autore di alcuni attentati dinamitardi avvenuti nel 2008 contro diversi oleodotti.
In questo documentario, intitolato non a caso Wiebo’s War (La guerra di Wiebo), non c’è spazio per la politica. È la lotta di una concezione del mondo, di una forma di vita contro ciò che la vuole distruggere, a venire ripresa dal registra canadese. Niente strategie di movimento, niente assemblee popolari, niente esasperata ricerca di consenso (anzi, l’unica assemblea che riprende il documentario è quella organizzata dalla polizia contro i sabotatori). Significativo anche il rapporto intercorso fra Ludwig e i media, i quali prima diedero risalto alle parole di quel bizzarro pastore, poi lo oscurarono completamente.
Wiebo Ludwig è morto il 9 aprile 2012, un anno dopo l’uscita di questo documentario che fu presentato in anteprima mondiale a Salonicco, in Grecia, al Festival dei Documentari. Il prossimo 13 aprile Wiebo’s War verrà proiettato (sottotitolato) per la prima volta in Italia.
L’appuntamento è per le 20.30 allo spazio di Tilt, in via Orsini Ducas 4 a Lecce, in quel Salento dove è in corso la lotta contro il gasdotto TAP.