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Guastafeste

( dal web )

Cosa c’è di più irritante di un compleanno, di un rituale prestabilito che ogni anno ti ricorda che un bel giorno sei nato senza averlo chiesto, rimandandoti a scadenza fissa al tempo che passa fino alla tomba?

Per non parlare di quelle cifre tonde che in base all’arbitrarietà del sistema decimale dovrebbero sfociare in una di quelle feste dove l’ipocrisia sociale raggiunge l’acme.

Eppure, ciò che vale per l’individuo che può sempre districarsi dalle ricorrenze sparando sull’orologio, assume un’altra dimensione quando il dominio decide di autocelebrarsi.

Allora non si tratta più del filo di Crono che si allunga, ma dello spettacolo del padrone che si manifesta per intimare agli schiavi l’enormità della loro servitù.

Come un eterno presente il cui solo orizzonte è costituito da catene forgiate col medesimo acciaio: quello dell’autorità.

Le pubbliche commemorazioni di avvenimenti del passato costituiscono un buon esempio del duplice uso degli anniversari da parte dei potenti in carica.

Da un lato, imprimere la loro versione della storia nella mente delle persone e, dall’altro, riaffermare la loro legittimità attraverso una continuità regolarmente scossa dal basso dalle rivolte.

In Italia, ad esempio, la Festa della Liberazione fissata il 25 aprile (1945) corrisponde alla data che segna la presa dei pieni poteri da parte del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), mentre lo sciopero generale insurrezionale a Torino e Milano era cominciato il 18 e il 23 aprile, e Napoli era già insorta nel settembre 1943 scacciando gli occupanti nazisti.

Così come è  il 28 aprile, tre giorni dopo, la data in cui Mussolini fu giustiziato dai partigiani e il suo cadavere appeso in Piazzale Loreto a Milano.

Ma la scelta di quella data avrebbe certo ricordato in modo troppo crudo la guerra civile tra i pro- e gli anti-fascisti, a scapito di una «riconciliazione nazionale» allora auspicata sia dai conservatori che dal partito comunista al fine di spartirsi in santa pace il potere.

Quanto ai nazisti, le truppe tedesche si sono arrese agli angloamericani il 2 maggio, segnando la definitiva liberazione del territorio della penisola.

Ma quest’ultima data avrebbe ovviamente lasciato troppo poco spazio alla resistenza nazionale.

Una delle conseguenze dell’istituzione di una ufficialissima Festa della Liberazione fin dall’aprile 1946, mentre i fascisti sarebbero stati amnistiati in massa a partire da giugno per venire in parte riciclati nell’apparato di Stato repubblicano, è che quei rivoluzionari che hanno proseguito la lotta per la libertà nei mesi e negli anni successivi, dopo l’aprile 1945 sono ridiventati «banditi» e «criminali» come sotto il fascismo, e non più «partigiani».

Qui la questione va ben oltre le controversie commemorative e i confini della legalità.

È legata piuttosto al fatto di agire in prima persona senza attendere date esterne o masse fluttuanti, a partire dalle proprie temporalità, dalle proprie idee e da esperienze radicate in fondo alle proprie viscere.

Allo stesso modo, non si tratta di rinunciare all’utopia dato che i tempi sono spesso senza speranza (e quando non lo sono?), ma per farvi fronte esser capaci nel contempo di coltivare un mondo interiore singolare e di sviluppare le nostre proiezioni su quello che ci circonda: per non lasciarci più semplicemente trascinare dalle burrasche della storia, dobbiamo pur iniziare a fare la nostra.

Per dirla con le parole di un compagno come Belgrado Pedrini, che come altri non aveva atteso la rottura del patto tra Stalin e Hitler per combattere armi in pugno contro il fascismo, né si era fermato quel 25 aprile, «Si faccia o no la rivoluzione, io farò la mia». 

Ma non c’è bisogno di valicare le Alpi per produrre immaginari legati più all’eternità dell’oppressione statale che alla sua distruzione.

Pensiamo ad esempio alla Rivoluzione del 1789, che i dirigenti di questo paese brandiscono ancora oggi come un totem d’immunità quasi culturale, mentre esportano le loro armi in ogni angolo del pianeta (se il massacro nello Yemen, ad esempio, vi dice qualcosa).

Ma no, suvvia, niente di tutto questo, noi siamo la patria dei Diritti dell’Uomo!

E la presa della Bastiglia, non è persino diventata la nostra Festa Nazionale?

Una festa che tra l’altro è stata indicata nel 14 luglio quasi cento anni più tardi, nel 1880, dopo parecchi cambiamenti sotto forma di compromesso tra borghesi liberali e conservatori… certamente in relazione alla presa della Bastiglia, ma anche alla Festa della Federazione dell’anno successivo, che vide il Re prestare giuramento alla Costituzione dopo una messa celebrata da 300 sacerdoti e davanti a un Te deum intonato dalla folla.

In quest’ultima scelta, nessuna visione di teste reali mozzate, tutt’altro, né di assalti ad arsenali militari da parte degli insorti per impadronirsi della polvere e dei cannoni.

Con questa data è in sostanza un intero movimento, difeso dall’esperienza di un Varlet nel suo opuscolo del 1794, che la continuità repubblicana del potere avrebbe voluto cancellare dalla memoria ribelle: «Per qualsiasi essere senziente, governo e rivoluzione sono incompatibili…».

Infine, al di là della sacralizzazione dello Stato o della proprietà tramite incisione della loro autorità nella pietra marmorea di una Dichiarazione Universale, ricordiamo che uno dei successi poco conosciuti di quel periodo è stato inoltre l’importazione in diverse lingue comuni di due concetti del dominio che avrebbero presto colonizzato le menti: «vandalismo» e «terrorismo».

Il primo termine, coniato nel 1794 da un deputato a partire dal nome di una popolazione considerata la più barbara di tutte (i Vandali), mirava a porre fine alle pratiche di chi continuava ad attaccare le chiese e i castelli per distruggerne il contenuto, come nei bei tempi andati.

Attraverso l’invenzione del vandalismo, la ragione di Stato ha inteso arrogarsi il monopolio delle buone distruzioni fattori di progresso — in chiave contemporanea sommergendo villaggi per costruire dighe, radendo al suolo quartieri poveri per farvi passare un treno o costruirvi torri di uffici, distruggendo una montagna per estrarre il litio — opponendosi a quelle malvagie, per forza di cose irrazionali.

Ovvero a tutte le altre distruzioni diverse dalle proprie, quelle praticate in modo autonomo, a maggior ragione se attaccano beni fondamentali per lo Stato.

Il secondo termine, risalente anch’esso all’anno 1794, designava il regime di terrore politico del Comitato di Salute Pubblica. 

Non si nominavano gli attacchi provenienti dal basso contro il potere, per spaventare e squalificarli, ma si indicava il terrore di Stato esercitato in modo indiscriminato.

Mentre alcuni gruppi come i populisti russi tentarono di riappropriarsi della parola all’inizio del secolo scorso, nello stesso periodo il potere comprese l’uso interessato che avrebbe potuto farne rovesciandone il significato contro chi gli si opponeva mediante l’azione diretta.

Una confusione che si è rapidamente diffusa con l’aiuto dei suoi portavoce di massa (prima la stampa popolare poi la radio), ed è così che ad esempio i sabotatori di reti elettriche, di linee ferroviarie o di fabbriche di armi diventavano partigiani o terroristi a seconda che fossero amici o nemici di uno dei regimi in carica, vale a dire sostenuti dalle potenze alleate o vilipesi dal regime nazista.

Così come lo stesso atto di sabotaggio compiuto dagli stessi individui durante gli scioperi insurrezionali del 1947 e del 48 sarebbe diventato «terrorista» piuttosto che «di liberazione» a detta degli stessi dirigenti… ormai passati dagli scranni dell’opposizione a quelli del potere.

Ancora una volta, era una data ormai anniversario destinata a fare la differenza, l’8 maggio 1945. 

Lo scorso 4 settembre, al Pantheon, la crema progressista del paese si è stretta attorno a Macron per celebrare nientemeno che «un momento fondante del modello repubblicano», ovvero il 150° anniversario della Terza Repubblica (1870).

Sì, sì, quella che si concluse quando 572 dei suoi deputati e senatori riunitisi al Gran Casino di Vichy votarono per i pieni poteri a Pétain.

Quella che, prima di realizzare la sua grande opera a suon di massacri coloniali, feroce industrializzazione, leggi scellerate e macellerie della prima guerra mondiale, aveva caratterizzato l’inizio del suo regime con il repubblicano squartamento di 20000 insorti della Comune. 

All’interno del pesante edificio in pietra bianca, proprio sotto i piedi dei potenti assisi in ranghi meno serrati del solito, c’è la tomba di un grand’uomo in putrefazione che probabilmente li ha lasciati perplessi.

Si tratta del primo presidente della Repubblica la cui carriera è stata tagliata di netto prima del suo termine.

Che bel giorno è stato quel 24 giugno 1894, quando il pugnale dell’anarchico Sante Caserio è penetrato a fondo nel fegato di Carnot, liberandolo definitivamente del peso del suo fardello. Contrapporre il nostro 24 giugno omicida alla loro ultima buffonata istituzionale del 4 settembre potrà apparire magari ridicolo a molti, ma è più che altro assurdo, tanto la nostra dimensione, quella della qualità, è radicalmente diversa dalla loro, quella della politica.

La cosa più importante qui è infatti che un compagno di carne e ossa come noi, un nemico dell’autorità come noi, abbia deciso di forzare il destino armato di coraggio e di determinazione, realizzando la propria storia.

«Se il governo usa contro di noi i fucili, le catene, il carcere, dovremmo, forse noi anarchici che difendiamo la nostra vita, restare chiusi in casa?»

chiese non senza ironia Caserio alla giuria, dopo aver già risposto a modo suo.

È nel corso della nostra stessa vita, di fronte alle sfide del presente, che ognuno dovrà trovare la propria risposta.

Come solo calendario in tasca, la nostra irragionevole passione per la libertà.

Lettera sul fronte unico

Schermata del 2019-12-01 11:52:55

( Dal Web )

Paolo Schicchi
Né a scusare le vostre canagliate vale menomamente il pretesto del «fronte unico antifascista» collo scopo precipuo di abbattere il più presto possibile il teschio di morto. Lo so bene che voi venite fuori colla vecchia e rancida massima di tutti i ribaldi e di tutti i gesuiti: il fine giustifica i mezzi, che è anche un’insegna essenzialmente fascista.
Ma nel caso vostro tale massima non regge nemmeno per delle ragioni semplicissime, che anche un caporale di deposito capirebbe.
Innanzitutto la qualificazione di «fronte unico» qui è sbagliata, trattandosi di vero e proprio «esercito unico» e non soltanto di fronte.
Ma passi pure il fronte unico.
Questo presuppone, oltre il nemico comune, comunanza d’intenti e di mezzi, unità di metodo e di condotta, volontà unica, ecc.
Ora tutti sanno che per molte ragioni nemmeno nell’ultima grande guerra fu possibile il fronte unico.
Anzi può dirsi che fino all’ultima fase, non era stato possibile nemmeno dentro i confini della Francia;
nella stessa guisa in cui non fu mai possibile in alcuna delle grandi guerre passate, per le stessissime ragioni.
Tu, che sei un grande storico e un grandissimo condottiero di tresca (tanto nomini nullum por elogium), leggi quello che scrisse Napoleone I sulla mancanza di fronte unico e anche d’affiatamento nella guerra dei Sette Anni; mancanza che permise a Federico il Grande di resistere a tante forze e a tante sconfitte.
E sì che Laudon, Daun, ed altri generali di non comune valore, se avessero potuto, non avrebbero aspettato gl’incitamenti del tuo luogotenente per affiatarsi meglio e combattere più uniti.
Alcune volte il criticare è facile, ma l’attuare è difficile, e spesso anche impossibile quando le circostanze di tempo e di luogo non lo consentono.
E lo stesso Napoleone all’ultimo, quando gli venne meno anche suo cognato Gioacchino Murat, dovette provarlo a spese sue.
Il caso tipico però l’abbiamo nelle invasioni barbariche, quando i vari eserciti e popoli barbari assalivano l’impero romano ognuno per conto proprio, nel medesimo tempo in cui essi stessi si combattevano e di frequente si annientavano a vicenda.
A questo punto tu potresti osservarmi che io esco fuor del seminato e che le mie disquisizioni d’arte militare c’entrano come i cavoli a merenda.
Ma no, le stesse leggi dinamiche che regolano le mischie del popoli all’esterno, regolano quelle dell’interno.
Le stessissime.
In quale rivoluzione del passato, anche delle più grandi, vi fu vero fronte unico tra i diversi ribelli e i vari partiti, se si eccettua e non sempre l’attimo improvviso, inaspettato e quasi fuggevole d’un primo assalto e d’un primo urto come la presa della Bastiglia? Dove?
Quando?
Sapresti dirmelo?
Ti sfido a rispondere.
Nella gigantesca palingenesi cristiana fin dall’inizio le varie dottrine, congreghe, sette e chiese furono senza tregua in contrasto tra loro e si azzannarono come cani.
Nella rivoluzione della Riforma successe la stessissima cosa fino allo sterminio degli Anabattisti, predicato e mandato ad effetto dallo stesso Lutero.
Erasmo, Melantone, Lutero ed altri ancora in cuor loro si odiavano cordialmente, mentre Calvino, a Ginevra, consegnava fraternamente al rogo Michele Serveto.
E così via di seguito.
Durante tutto il corso della Rivoluzione Francese, eccetto che nella presa della Bastiglia, che fu gesta fulminea di tutto il popolo parigino, un partito non fu mai d’accordo con un altro, e sarebbe stato preso per un babbeo o per un pazzo chi avesse parlato di fronte unico, che non esistette mai neppure mentre i nemici irrompevano alle frontiere e marciavano a gran passi sulla capitale.
E lo stesso può dirsi della Rivoluzione Russa.
Nelle rivoluzioni del Risorgimento italiano non si sapeva neanche che cosa fosse il fronte unico, e nessuno si sognò mai di parlarne.
Dappertutto repubblicani contro monarchici, federalisti contro unitari, Mazzini contro Cavour, Giuseppe La Farina e Giorgio Pallavicino emissari di Cavour che vanno a brigare contro Garibaldi a Palermo e a Napoli, conservatori contro democratici, pensiero ghibellino contro pensiero guelfo, Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari contro Mazzini.

L’obiettore

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( Dal Web )

Roger Martin du Gard

La città era calma: di una calma tragica. Le nubi che da mezzogiorno s’andavano accavallando, formavano una scura coltre che immergeva la capitale in una specie di crepuscolo. I caffè, i negozi avevano acceso; e la luce che proiettavano attraversava di strisce livide le strade semi buie, dove la folla, privata dei mezzi di trasporto, si pigiava, inquieta e frettolosa. Gli ingressi della metropolitana traboccavano sino ai marciapiedi di gente in attesa sui gradini.
Rinunziando ad aspettare, Jacques e Jenny raggiunsero a piedi la riva destra.
Ad ogni cantonata, strilloni di giornali: le edizioni straordinarie venivano strappate di mano, scorse con avidità. Ognuno suo malgrado vi cercava ostinatamente la grande notizia: che tutto s’era aggiustato; che, rinsaviti, i governanti avevano di comune accordo trovato una soluzione pacifica; che l’assurdo incubo s’era finalmente dissipato.
All’Humanité, da che era stata decretata la mobilitazione, non si vedeva più nessuno; come, del resto, dappertutto. Ognuno, si sarebbe detto, trovava più solo il tempo di pensare ai casi propri. L’ingresso, le scale, deserti. Dall”unico usciere di servizio nel corridoio, Jacques seppe che Stefany non s’era ancora vista; e che Gallot, di turno al giornale, non riceveva nessuno, avendo da preparare il numero dell’indomani. Jacques non insistette.
«Andiamo al Progrés» disse a Jenny; ed uscì con la ragazza che, stanca morta, lo seguiva come la sua ombra.
A pianterreno, nessuno; neppure il proprietario; sola alla cassa, la moglie; aveva gli occhi rossi di pianto; non diede segno di vederli.
Salirono al mezzanino.
Un tavolo solo occupato: tutti giovani che Jacques non conosceva. Fatta sedere Jenny vicino all’ingresso, Jacques scese a prendersi una mezza bottiglia di birra: aveva sete.
«E che altro vuoi, imbecille? Aspettare che ti vengano a prendere i gendarmi? Farti mettere al muro come un cretino?». Chi parlava era un giovanotto sui venticinque, scuro di pelle, il berretto buttato sulla nuca. Il tono era aggressivo e lo sguardo, con cui andava da viso a viso, duro. «E poi vuoi che ti dica?» riprese con crescente irritazione. «Per noi, per quelli che come noi han seguito da vicino come sono andate le cose, un fatto è sicuro, che basta da solo: noi apparteniamo ad un paese che la guerra non la voleva e che non ha nulla da rimproverarsi!».
«Questo, sì, lo dicono tutti» ammise il più anziano della compagnia: un uomo sulla quarantina, che vestiva la divisa d’impiegato al metrò. «I tedeschi, questo, non lo possono dire! La pace dipendeva da loro. Dieci volte, in questi ultimi giorni, hanno avuto l’occasione di sbarrar la strada alla guerra!».
«Anche noi! avremmo potuto dire chiaro “merda” alla Russia!».
«Questo, non sarebbe servito a nulla! Vediamo bene, oggi in che sporco modo i tedeschi avevano montato il colpo! L’han voluta? Ebbene, la paghino! La Francia è attaccata: ha il dovere di difendersi! E la Francia sei tu, sono io, siamo tutti!».
Meno l’impiegato al metrò, tutti parevano consentire.
Jacques rivolse a Jenny un’occhiata piena di sconforto. Ricordava le parole di Studler, il suo sguardo che accattava comprensione: « lo ho bisogno di credere alla colpevolezza della Germania!». Già quel bisogno stava diventando generale.
Senza bere la birra che s’era versata, fece segno alla ragazza e s’alzò. Ma prima d’andarsene s’avvicinò al gruppo:
«La guerra difensiva, la guerra legittima, la guerra giusta!… Non vi accorgete dunque che è sempre la solita trappola? Anche voialtri ci cadete. Non sono tre ore che la mobilitazione è stata decretata, ed ecco a che punto di cecità siete già arrivati! Chi resisterà a questa ventata di pazzia, se voi socialisti siete tra i primi a mollare?».
Parlando, non si rivolgeva in particolare a nessuno; ma ad uno ad uno li guardava tutti; e le labbra gli tremavano. Il più giovane, un garzone di panettiere, da com’era infarinato, alzando il viso di Pierrot:
«lo la penso come Chataignier» disse, calmo. «Devo partire domani, io… Detesto la guerra; ma sono francese; il mio paese è attaccato. Mi chiamano, e io vado. Parto con la morte nell’anima, ma parto!».
E il suo vicino: «Anch’io la penso così. Il mio giorno è martedì. Sono di Bar-le-Duc… Non avrei alcun piacere che il paese dove son nato diventasse territorio tedesco».
Ascoltando, Jacques, tra sé: «Come questi, i nove decimi dei francesi! Unicamente preoccupati di assolvere il loro paese d’ogni colpa! E a questo non s’aggiungerà, in questa gioventù, una certa torbida compiacenza di sentirsi improvvisamente parte d’una comunità oltraggiata, di respirare l’aria ubriacante d’un rancore collettivo?». Nulla era mutato dal tempo in cui il cardinale Retz ardiva scrivere: « Il n’est rien de si grande conséquence dans les peuples, que de leur faire paroître, même quand l’on attaque, que l’on ne songe qu’à se défendre ».
«Pensateci bene!» riprese con voce sorda. «Se mollate domani sarà troppo tardi. Non capite che quel che accade qui, accade punto per punto anche in Germania? Le stesse esplosioni d’ira, la montatura di notizie false, di false accuse, gli stessi antagonismi… Non capite che tra noi e la Germania si sta ripetendo in grande la scena, né più né meno, cui tutti i giorni assistete per strada; dei due monelli che, con gli occhi fuori della testa, si buttano l’uno sull’altro per poi darsi a vicenda la colpa: “È stato lui a cominciare!”».
«Sia; ma allora, secondo te, che devo fare io, precettato?».
«Che devi fare? Se pensi che la violenza non può essere giustizia, che la vita umana è sacra, se pensi che di morali non ve ne possono essere due: una, in tempo di pace, che ti manda in galera se uccidi; l’altra, in tempo di guerra, che ti impone di uccidere, rifiutati di partire! Tieni fede a te stesso! All’Internazionale!».
Jenny, ch’era rimasta in disparte, vedendo che si accalorava, istintivamente lo raggiunse.
Il garzone panettiere s’era alzato e incrociando le braccia:
«Per farmi mettere al muro? No, ma di’, vieni fuori con delle belle!… Almeno, al fronte, ognuno corre il suo rischio; se non è proprio scalognato, può portar via la pelle!».
Jacques, alzando la voce:
« Ma non sentite che è da vili svestirsi della propria responsabilità per rimetterla nelle mani di chi è più forte? Voi dite: “Disapprovo, ma non ci posso far niente”. Obbedire, sottomettervi vi costa; ma tacitate con poca spesa la vostra coscienza col dirvi che la vostra sottomissione è penosa e meritoria… Non v’accorgete dunque di essere vittime d’un giochetto criminale? Vi siete scordati che i governi non ci sono per asservire i popoli e mandarli al macello; ma per servirli, proteggerli e renderli felici?».
Un moro, sui trenta, battendo il pugno sul tavolo:
«No e no! Non hai ragione… Dio sa se son mai andato d’accordo col governo. Sono socialista al pari di te. Ebbene, io son pronto a battermi per il governo, come ogni altro!».
Jacques fece per parlare, ma quello non lo lasciò:
«E questo non ha nulla da vedere con le mie convinzioni! Con i nazionalisti, con i capitalisti, con tutti i capoccioni, ci ritroveremo dopo! e regoleremo i conti, se te lo dico, puoi star certo. Ma in questo momento, non si tratta di pensarla in un modo o in un altro. Il primo conto da regolare è con i tedeschi! Sono stati quei porci lì, a volere la guerra! L’avranno! E ti dico: per quel che dipende da me, d’averla voluta s’avranno a pentire!».
A Jacques caddero le braccia. Fece spallucce e presa per il braccio Jenny si diresse alla scaletta.
«E con tutto questo, evviva la Sociale! » una voce alle loro spalle.
Procedettero per un tratto in silenzio. Sordi brontolii annunziavano imminente un temporale.
«Vede» disse Jacques. «Ho creduto, ripetuto tante volte, che le guerre non nascono da motivi sentimentali; che sono effetto unicamente di cause economiche. Ebbene, oggi, a vedere con che spontaneità la frenesia nazionalista si propaga in tutti i ceti indistintamente, arrivo quasi a chiedermi… se le guerre non sarebbero piuttosto il risultato d’un oscuro conflitto di irrefrenabili passioni, al quale il cozzo d’interesse servirebbe solo d’occasione, di pretesto…». E dopo una pausa, sempre come pensando ad alta voce: «E la peggiore derisione è la preoccupazione che essi hanno, non solo di giustificarsi, ma di proclamare ben alto che il loro consenso è ragionato e “libero”. Sì, libero! Tutti questi disgraziati, che ieri ancora lottavano accanitamente per tener lontana la guerra, oggi che vi si trovano dentro, a niente tengono quanto ad aver l’aria di agire di loro spontanea volontà!».
E dopo una pausa: «Tragico, poi, il fatto, che tanti uomini di buon fiuto, diffidenti, possono diventare da un momento all’altro creduli a tal punto, non appena si fa vibrare la corda patriottica! Forse dipende semplicemente da questo: che l’uomo medio s’identifica ingenuamente con la patria, con la nazione cui appartiene, con lo Stato… L’abitudine di dire “noi francesi…”, “noi tedeschi…”. E visto che ogni cittadino, preso a sé, desidera sinceramente la pace, gli è impossibile ammettere che lo Stato, che lo rappresenta, voglia la guerra. Dal che verrebbe di concludere: più il singolo è amante della pace, più è portato a discolpare il proprio paese; e più facile diventa convincerlo che la minaccia della guerra viene dall’esterno, che il governo non è responsabile, che lui fa parte d’una collettività iniquamente minacciata e che ha il dovere di difendersi con il difenderla…».
Goccioloni di pioggia lo interruppero. Attraversavano in quel momento place de la Bourse. «Corriamo, se no ci si infradicia…».
Fecero appena in tempo a ripararsi sotto i portici di rue des Colonnes. Il temporale, che tutto il giorno aveva pesato sulla città, scoppiava con inaudita violenza. I lampi si susseguivano senza respiro, sferzando i nervi; e il rullare incessante del tuono si ripercuoteva tra i palazzi con un fragore che ricordava i temporali in montagna.
« Andiamo a rifugiarci là» propose Jacques, indicando in fondo al portici una trattoria male illuminata e già invasa di gente.
«In attesa che passi, mangeremo un boccone».
                                                                                                                               I Thibault, Estate 1914

Contro le guerre, contro le frontiere

PicassoMassacreInKorea

( Articolo Condiviso )

“L’esercito combatte”, è il titolo delle giornate in ricordo della prima guerra mondiale che partono da Lecce il 21 maggio per spostarsi poi in altre città italiane.
Questo ennesimo tentativo di presentare guerra, soldati e armi da guerra come innocui e tutto sommato divertenti, impressiona e disturba profondamente.
La prima guerra mondiale che si intende ricordare è stata un massacro terrificante di generazioni intere di cui non c’è davvero nulla da esaltare, anzi, l’unico suggerimento che può dare è quanto faccia schifo combattere per la patria e quanto la patria, o l’economia ai nostri tempi, consideri meri numeri coloro che manda al fronte e mere variabili le conseguenze che possono derivare: case, ospedali, civili bombardati: i cosiddetti effetti collaterali. Oggi le guerre sono sempre più tecnologiche, ma allo stesso modo producono morti e distruzione. Non esiste alcun valore positivo da attribuire ad una macchina di morte o ad un soldato: sono solo strumenti nelle mani di chi intende accaparrarsi risorse, gestire un’area nel mondo, accrescere la propria egemonia. La patria e il nazionalismo sono, a volte, gli appigli ideologici per far nascere conflitti. Ma è di fatto l’Economia a utilizzare la guerra come mezzo di ristrutturazione o profitto. Se il crescente nazionalismo dei primi del Novecento ha portato ad una guerra mondiale, tragica e sanguinosa, oggi, allo stesso modo, si innalzano muri e barriere e si militarizzano le frontiere. La guerra dichiarata è contro i più poveri, gli erranti, coloro per i quali l’Economia e gli Stati hanno deciso che non esiste più un posto nel mondo.
Le giornate come quelle in programma vogliono insinuare la normalità della presenza militare, nelle città come nelle strade. Una logica militare gerarchica e oppressiva viene presentata come un modello eroico da ammirare. Si diffonde l’idea che il mestiere del soldato non sia fare la guerra, e quindi ammazzare, ma aiutare la gente. Un aiuto che si è potuto vedere all’opera sempre più spesso, dalle torture e gli stupri in Somalia nel ’93, alle sevizie ad Abu Ghraib, all’“annichilimento” di Falluja, dove si massacravano uomini e donne ridendo e divertendosi. E mentre si prepara un’imminente operazione in Libia, cercano di far passare il messaggio che questa sia indispensabile per combattere lo Stato Islamico che commette attentati in Europa. Ma quegli attentati e quei morti sono il frutto di un ennesimo esercito e di un ennesimo Stato – seppure islamici –, oltreché l’effetto nefasto di una guerra che torna indietro; la conseguenza velenosa delle innumerevoli guerre che l’Occidente ha combattuto in tutto il mondo nell’ultimo quarto di secolo, fomentando l’odio nel cuore di molti che le hanno subite.
Disertare questo genere di manifestazioni è il primo passo per disertare una mentalità militarista che sempre più vogliono inculcarci, per tornare a gridare con forza: soldati assassini, guerre infami.

Antimilitaristi